Lo State of Origin è una competizione difficile da spiegare a chi è digiuno di rugby league o di Australia in generale.
Scelgo un flashback personale, per darne un’idea.
È ottobre quando, assieme a quella banda di matti alla delegazione FIRL atterro a Brisbane, capitale dello stato del Queensland. Sono qui per coprire la Rugby League World Cup in qualità di responsabile social media della Nazionale; quello che trovo è la realizzazione di un sogno, qualcosa che avevo bramato da tempo: la terra del rugby league, proprio come me l’ero immaginata.
Atterrare a Brisbane implica il primo contatto con un ambiente selvaggio, nel quale l’uomo s’è trapiantato. Entrando in contrasto con la natura del luogo, ma senza sostituircisi in toto. Ricorda un po’ gli Stati Uniti meridionali, per certi versi: ecco un uomo “gigante” con indosso la canotta commemorativa di non so quale gara di pesca (!), una moda non certo mitteleuropea, l’idea del profondo sud (che qui è nord…).
Su tutto, ecco il rugby a XIII, anche se qui nessuno lo chiama così: è già tanto che concedono allo spettatore neutrale o appassionati di altri codici di chiamarlo rugby league o semplicemente league. Qui è football, per gli amici footy: esiste solo questo, semplicemente domina.
Domina le headlines dei giornali (a Cairns l’azzurro Colin Wilkie, eroe locale, ha avuto più copertura che Mertens e Higuaín da noi), riempie di store aeroporti, stazioni, centro città. È tutto Brisbane Broncos, è tutto North Queensland Cowboys. È tutto – qui viene il bello – Queensland.
I Maroons, la squadra rappresentativa di questo stato – una terra immensa che occupa la parte nord-orientale del continente – sfidano ogni anno New South Wales (il Nuovo Galles del Sud, lo stato di Sydney, Newcastle e Wollongong) nello State of Origin, una sorta di All Star Game della NRL.
Ma è una definizione fallace, non riesce a essere esaustiva e anzi ti porta fuori strada. Di esibizione ha l’aspetto mediatico e la cornice, ma l’abito è quello della vera competizione: si gioca per vincere, per darsele (!), per portare a casa una serie. Al meglio delle 3, ma la terza partita la giochi in ogni caso, anche se si è già sul 2-0 per QLD o NSW: lì l’obiettivo diventa schiacciare l’avversario e umiliarlo sino al cappotto (3-0), oppure vincere, salvare il salvabile e seminare fiducia ed entusiasmo in vista dell’anno successivo.
Concepita anche e soprattutto come trial in vista della selezione della nazionale australiana (i Kangaroos), l’Origin è diventato qualcosa di più. Ha superato, per attesa, fama, share televisivo e ansia da prestazione, lo stesso rugby league internazionale, le stesse partite dell’Australia per le quali in teoria dovrebbe essere un provino, un modo per capire di che pasta un giocatore sia fatto.
L’intensità e la velocità raggiunte dal gioco non trovano eguali nel resto del mondo dello sport: Queensland contro New South Wales è un match in cui la rivalità tocca le vette di Roma-Lazio ma con la qualità degli interpreti di una finale di Champions; è un Irlanda-Inghilterra a Dublino che vale il Sei Nazioni ma con lo scontro anche triviale tipico di un Liverpool-Manchester United ad Anfield. È semplicemente l’Origin, in fin dei conti.
Nella sua versione moderna – anche se NSW e QLD avevano sempre giocato sfide a livello rappresentativo – il concetto attuale viene concepito nel 1980. Lo scetticismo, all’epoca, non mancava: a Sydney e dintorni stavano la maggior parte delle squadre del league professionistico e si pensava che, a parte qualche sporadico exploit qua e là, difficilmente Queensland avrebbe retto il confronto.
Ma molti dovettero subito cambiare idea, alla prova dei fatti: «Ero decisamente contrario a questo tipo di match – scriveva il giornalista Alan Clarkson sul Sydney Morning Herald il 6 ottobre 1980 – ma questa partita così avvincente mi ha convinto che sarebbe un’ottima aggiunta al calendario fisso del rugby league». Parole che arrivavano dopo il 20-10 inflitto dai Maroons di Mal Meninga (Souths Magpies, ora ct dell’Australia, ndr), Kerry Boustead (Roosters) e Chris Close (Redcliffe Dolphins) ai Blues.
Da lì in poi, anche per la concomitante perdita di appeal del gioco a livello di test (Gran Bretagna e Nuova Zelanda sono state di rado competitive per i fortissimi australiani) questa serie è diventata il pinnacle del calendario annuale, persino della carriera di un rugbista. Rappresentare il proprio “stato di origine” è un onore e tanti giocatori anche noti al nostro pubblico di affezionati (Anthony Minichiello, James Tedesco, Aidan Guerra, ora Paul Vaughan, tutti nazionali azzurri selezionati negli anni da NSW e QLD) parlano di questa esperienza come di qualcosa di indimenticabile.
Albo d’oro alla mano, i Maroons sono andati a confermare di essere tutt’altro che la vittima sacrificale del sistema di Sydney, roccaforte del XIII mondiale specie a livello di club: delle 36 serie sinora disputate, ne ha vinto 21 contro le 13 portate a casa da New South Wales e le 2 chiuse in parità. Come match disputati, siamo a 58 vittorie di QLD contro le 48 di NSW; 2 i pareggi.
Gran parte di questo dominio storico e anche attuale (QLD ha vinto 11 delle ultime 12 serie) si deve alla cosiddetta generazione d’oro, quella di Billy Slater, Cameron Smith, Greg Inglis, Cooper Cronk e Johnathan Thurston. Oltre che ai grandi cicli in NRL dei Broncos di Wayne Bennett, dei Cowboys e specialmente dei Melbourne Storm. Ma anche alla sapiente guida tecnica della leggenda Meninga – che a Canberra, dove con quella banda di matti la FIRL siamo stati per Italia-Fiji – ha stand e statua dedicate –, coach capace di capitalizzare al meglio quanto fatto dai club e segnatamente il talento che Dio o Madre Natura ha dato a quella generazione di giocatori.
Adesso che Meninga, ben sostituito da Kevin Walters – grande mediano di mischia e d’apertura con Maroons e Australia da giocatore, pioniere in Francia coi Catalan Dragons da allenatore –, è passato alla nazionale e che Smith, Thurston e Cronk hanno detto addio al rugby league internazionale e allo State of Origin, si apre forse uno spiraglio di luce per New South Wales. Che aveva illuso nel 2014, spinta da quel fenomeno di Jarryd Hayne (tornato a Parramatta dopo la parentesi nel football americano NFL coi San Francisco 49ers), salvo complicarsi la vita mentalmente anche in serie che sembravano facili da dominare, per “colpa” di Smith e di tutti quei leader lì.
Salutato Laurie Daley e ingaggiato Brad Fittler, l’uomo del “miracolo” Libano alla scorsa Coppa del Mondo, New South Wales ha convocato una lista di giocatori che sembra avere le carte in regola per interrompere definitivamente la dinastia QLD.
Dal già menzionato estremo della nazionale italiana James Tedesco, non brillantissimo al Mondiale eppure fuoriclasse i cui colpi stanno deliziando i tifosi dei Roosters in campionato, al mediano James Maloney, che ha sempre sofferto il confronto con JT e Cooper Cronk ma ha adesso campo libero, dalla fortissima seconda linea Tyson Frizell (il Galles lo aspetta, ma per un po’ è probabile resti un nazionale australiano…) al nostro pilone azzurro Paul Vaughan, clamorosamente escluso dall’Origin 2017 nonostante una forma strepitosa coi St. George Illawarra Dragons, il vento sembra cambiato.
Eppure Queensland, recuperato Greg Inglis (capitano) e date le chiavi di tutto in mano a Billy Slater (il fullback più forte del mondo, al momento, checché se ne dica), di cedere non ha proprio voglia.
Parola quindi al campo, a partire da mercoledì 6 giugno al Melbourne Cricket Ground. Arbitreranno Gerard Sutton e Ashley Klein; li invidio e non li invidio: è la partita più tesa e difficile di tutta la stagione.
Buon Origin a tutti.

di Matteo Portoghese – tutti diritti riservati