È che ce lo insegnano da piccoli. Ci dicono: “Questo è uno sport di squadra, si gioca, si vince e si perde tutti insieme”. E noi da lì cresciamo convinti che, almeno nella nostra squadra, tutti siamo uguali davanti all’allenatore. Che tutti possiamo fare tutto. Che il campetto ce lo giochiamo tutti alla pari.
Già.
È che sulla carta siamo tutti uguali soltanto finché Madre Natura non esce allo scoperto e fa capire che qualcuno è più uguale degli altri. Che questo qualcuno ha potenzialità e talenti che altri mai arriveranno vicini ad annusare. Ti danno la speranza di poter competere con tutti, poi la realtà dirà altro. Dirà che sul campo delle Cebollitas, la squadra giovanile dell’Argentinos Juniors, un ragazzino che di nome fa Diego Armando Maradona e che nel 1986 vincerà il Mondiale messicano quasi da solo non è e non può essere come tutti gli altri. Dirà che il figlio di Jelly Bean Bryant, americano giramondo del basket, che tante volte si è sbucciato le ginocchia sui campetti di Reggio Emilia, la palla a spicchi non la tratta come tutti gli altri. Si chiama Kobe e fino a qualche mese fa si è divertito a dare lectio magistralis di pallacanestro in giro per il mondo. Forse ne avete sentito parlare.
Poi vi diranno che anche il rugby è uno sport di squadra, si gioca, si vince e si perde tutti insieme.
Obiezione, vostro onore.
Perché il rugby è sì uno sport da e per esseri umani, ma può capitare che, da qualche parte in questo mondo schiacciato ai poli, la nostra amica Madre Natura abbia fatto finta di perdere per strada una quantità di talento più grande del solito.
Molto più grande del solito.
È un po’ puttana, a volte, bisogna riconoscerlo.
Il malloppo se lo perde a Southbridge, paesello a meno di un’ora da Christchurch, Nuova Zelanda. Il signor Neville, ex giocatore e piazzatore della squadra locale, ha trasmesso la sua passione al figlio. Anche lui mancino. Ha otto anni, il ragazzino, e non c’è modo di tenerlo fermo.
Lui vuole giocare.
Meglio ancora, lui vuole calciare quel pallone ovale, come il papà.
Ora, capirete che c’è un problema logistico di fondo: se avete un figlio appassionato di calcio il tutto si può risolvere con un pallone e due alberi. Se vostro figlio ha il poster di Lebron James o del summenzionato Kobe in camera bastano un canestro, due viti e passa la paura. Ma come fate se vostro figlio ama piazzare a terra un pallone da rugby e centrare due ipotetici pali e oltrepassare una traversa? Il piccoletto la risolve a modo suo: cerca di calciare il pallone dall’altra parte della casa.
Risultato: suppellettili rotte in abbondanza e genitori sull’orlo di una crisi di nervi.
Finché a Neville viene un’idea: qua servono un campo e dei pali. Il campo non è un problema, in Nuova Zelanda c’è sempre una discreta dose di verde nei dintorni, e Neville ne ha un bel po’ dietro casa. Per i pali convoca l’ingegnere del paese e se ne fa costruire due regolamentari.
Bianchi e blu, come i colori del Southbridge.
Se passate da quelle parti sono ancora lì.
La moglie ringrazia, visto che da quel momento non sarà più costretta a fare i conti con un bombardamento ovale dietro l’altro. Ma a ringraziare ancora di più è un intero Paese, visto che il figlio del signor Neville, da quel momento, lascerà una discreta storia nel rugby neozelandese. Serviranno due o tre parole di Graham Henry, uno di quegli uomini a cui il rugby deve più di qualche birra, per consacrarlo al mondo: “Quel ragazzino dei Crusaders, quello che fa il centro. Ecco, fatemelo giocare apertura, che un posto in Nazionale glielo trovo io”.
Il ragazzino si chiama Daniel Carter, e forse anche di lui avete sentito parlare.
In verità però, nel momento in cui Henry ha parlato, Dan aveva già debuttato in Nazionale. Aveva già in curriculum, infatti, la Coppa del Mondo del 2003. Ma John Mitchell, ct neozelandese, aveva già optato per una regia e una linea di trequarti di marca Blues. Scelta giusta, i Blues avevano vinto – e bene – quell’edizione del Super Rugby. Dando spettacolo, visto che da quelle parti gravita gente come Howlett, Muliaina, Rokocoko. E King Carlos in regia, uno dei più grandi geni del rugby neozelandese. Mitchell però sa benissimo che il buon Spencer, mai banale quando gli passano un ovale, non è irreprensibile dalla piazzola. Ad un Mondiale non è che puoi permetterti piazzole ballerine o piedi a banana, e allora ci pensa un attimo.
Non c’è Andy Mehrtens, reduce da una stagione stregata, e allora si porta il suo erede designato ai Crusaders, che ha 21 anni e gioca primo centro. Carter, appunto. La strada per la Coppa, però, si interrompe sul più bello, sul passaggio scriteriato di Carlos e sull’intercetto di Mortlock. Da quelle parti, quel Mondiale, non lo ricordano mai volentieri.
Mitchell al termine del Mondiale se ne va, al suo posto arriva Graham Henry, reduce dall’avventura sulla panchina del Galles. Per il Tri Nations 2004 non cambia troppe carte in tavola, sfrutta ancora Spencer e Mehrtens, poi in autunno gioca il carico da undici: Carter apertura. Lo aveva già fatto capire ai piani alti di Christchurch: “Mettetemelo all’apertura che poi ci penso io”. Non se lo fanno ripetere due volte.
Gli All Blacks a novembre arrivano in Europa e fanno tre su tre: a Roma ci danno 59 punti, buona parte in un primo tempo in cui non ci capiamo nulla, a Cardiff invece faticano tantissimo contro il Galles. Certo, ma quello è il Galles che vincerà lo Slam di lì a qualche mese e gente come Shane Williams, Martyn Williams e Gavin Henson, in quelle stagioni, in nero non avrebbero sfigurato.
Poi a Parigi rifilano un 45 a 6 ai francesi che fa parecchio rumore. Carter fa vedere i primi segni di quel che sarà: dalla piazzola è praticamente infallibile, in campo aperto distribuisce endecasillabi, alla mano e al piede.
Ma non è tutto qui.
Il ragazzo ha giocato parecchio come primo centro dietro a Mehrtens, quindi qualche placcaggio serio lo ha tirato, nel suo apprendistato. Ha una coordinazione motoria invidiabile, potrebbe essere un crack in qualsiasi sport decidesse di praticare, anche perché ha appoggi morbidi, naturali, sembra stia facendo jogging tra gli avversari e invece non lo prendi mai.
E tutto questo lo fa vedere solo a sprazzi, solo quando serve. È essenziale, che è un complimento sempre troppo sottovalutato a queste latitudini. È persino belloccio e finirà per metter su famiglia con la fidanzata del college, quella bellissima, simpatica e campionessa di cricket. Perché Madre Natura doveva pur finire per bene il lavoro, quella volta, non poteva lasciarlo a metà.
Non è che in patria si stropiccino subito gli occhi, a dir la verità. Sì, va bene, è giovane, si farà, ma sembra perfino troppo educato. Troppo “bravo ragazzo”, troppo angelico in un ruolo in cui aveva appena preso il posto di Carlos Spencer, che in quanto a furia agonistica non era secondo a nessuno già a partire dall’haka.
Che poi oh, sono buoni tutti a fare sessanta punti all’Italia. E sono buoni tutti a giocare dietro a quel pack.
Carter non si fa vedere davanti ai microfoni, lascia parlare tutti. E, come tutti gli altri, attende i Lions, il primo test probante del 2005 per i tuttineri.
Sir Clive Woodward, il selezionatore, vuole sconvolgere il mondo. Non sarebbe nemmeno un proposito incredibile, il suo, visto che nel 2003 nel giro di qualche mese mise a ferro e fuoco l’intero emisfero sud. Si porta in Nuova Zelanda molti gallesi vincitori del Grande Slam, ma commette l’errore comune a molti generali, l’affidarsi cioè ai suoi veterani. Stanchi, sfatti, molti a fine carriera. Gli inglesi vengono da due annate quantomeno rivedibili, il ricambio generazionale latita, e se pensate che Wilkinson e compagni erano già stati rinominati l’Armata dei papà per l’età avanzata, figurateveli con due anni in più sul groppone. Il primo Test a Christchurch finisce 21 a 3 per i tuttineri, ma se i punti di scarto fossero stati quaranta non ci sarebbe stato nulla da dire. Un disastro su tutti i fronti. Anche perché dopo appena due minuti si fa male Brian O’Driscoll.
E a questo proposito Sir Woodward si accorge di aver commesso un altro errore: aveva affidato la campagna mediatica dei Lions all’ex spin doctor di Tony Blair, Alastair Campbell, giornalista e uomo politico di intelligenza superiore, ma forse un po’ troppo sul polemico e un po’ troppo alieno ai principi della palla ovale. Campbell alimenta una campagna secondo cui O’Driscoll sarebbe stato deliberatamente “fatto fuori” dal placcaggio di Umaga e Mealamu. L’effetto è controproducente, visto che gli stessi Lions non si riconoscono in quelle parole e in altri atteggiamenti. Solo che il dado è già tratto, e il secondo match contro gli All Blacks è alle porte.
Woodward questa volta dà fiducia a molti gallesi, mette finalmente Jonny Wilkinson in mediana, Gavin Henson e Gareth Thomas ai centri, Paul O’Connell in seconda linea. E i risultati si vedono, i Lions sembrano un’altra squadra: Thomas segna la prima meta dell’incontro dopo pochissimi minuti.
Gli All Blacks, nel catino di Wellington, si guardano un attimo. Mica sono tesi, però. La sensazione è quella di rivedere il Brasile dei 5 numeri 10 dei Mondiali di calcio 1970: bene, bravi, palla al centro e ripartiamo.
E va così: Carter butta dentro due piazzati. Poi mette sul tavolo il primo Swarovski: Umaga ruba palla davanti ai suoi 22 e lo serve. E Carter corre. Dan si fa cinquanta metri palla in mano scherzando i tentativi di placcaggio di Jonny Wilkinson, Gavin Henson e Shane Williams.
Non li sente nemmeno.
Per piacere, rileggetevi i nomi degli aspiranti placcatori.
Poi serve Umaga che corre indisturbato. Sorpasso. I Lions rimangono attaccati al match con due calci di Wilkinson, ma ad inizio ripresa Carter chiude il match: prima un piazzato, per la verità neanche troppo difficile. Poi la seconda perla: So’oialo lo serve a pochi passi dalla rimessa laterale, lui cambia passo e semina sui primi passi Shane Williams (Shane Williams!). Quando si trova davanti Lewsey calcia a seguire, lo svernicia e in caduta smanaccia la palla. Meta clamorosa, seguita da altrettanto clamorosa trasformazione dalla rimessa. Viene giù tutto.
Ragionerino a chi?
Il match potrebbe finire qui, i Lions scompaiono praticamente dal campo, ma Carter è in piena trance agonistica. On fire, dicono quelli che avevano otto in inglese. Segna un’altra meta con una finta che Lewsey sta ancora bevendo al bar, ne manca una solo perché Shane Williams si immola a un niente dalla linea di meta. In tutto questo trova il tempo di rompere placcaggi, di trovare i 22 avversari dai suoi 22 a suon di cannonate. Finisce 48 a 18, Carter segna 33 punti equamente suddivisi in 2 mete, 4 trasformazioni e 5 calci di punizione. E si toglie la soddisfazione di fare tutto questo giocando contro Jonny Wilkinson, che in quel ruolo ha vinto un Mondiale e seminato il panico ovunque le sue tomaie abbiano cantato.
Praticamente è andato in piscina e, invece di nuotare, si è fatto una passeggiatina sulle acque.
Sarà giocatore dell’anno, si ripeterà nel 2012.
Da quel giorno, in patria, i detrattori sono andati a comprare un nuovo carro del vincitore.
La strada è aperta. Durerà, con la maglia nera, altri dieci anni. Dà l’addio agli All Blacks col Mondiale 2015, e lo chiude a modo suo.
Vuole chiuderlo a modo suo.
Perché è vero che a curriculum ha già vinto un Mondiale, ma nel 2011 deve saltare tutta la fase ad eliminazione, vinto da un inguine capriccioso. E sappiamo tutti quale differenza ci sia tra vincere in campo, mettendoci mani, piedi e cervello, e vincere in tribuna. E allora prende per mano i suoi in una partita messasi all’improvviso in salita: i Wallabies approfittano di un giallo comminato a Ben Smith e dal 21 a 3 arrivano al 21 a 17 con 15 minuti da giocare.
Non è facile.
Non per dei giocatori “normali”.
I Wallabies ci credono, ma quella palla di Aaron Smith a Carter, sotto sotto, sanno già che fine farà.
Carter se la sistema sul sinistro e droppa da 40 metri, pali centrati.
Poi si ripete con un calcio da metà campo.
Sei punti di una difficoltà estrema, se la commisurate al contesto.
Wallabies ricacciati indietro, saluti e baci.
È campione del Mondo ancora, è giocatore dell’anno ancora.
Uno come Dan Carter, da queste parti, un altro così, non tornerà per un po’. Madre Natura è da un po’ che non calca più la mano come una volta.