di Melita Martorana da Auckland
Sabato 15 febbraio riapre la campagna “super” dei campioni in carica dei Blues di Auckland, e lo fanno a casa loro, Eden Park, contro i rivali del 2024, quei Chiefs che hanno battuto proprio nella finale della scorsa edizione del Super Rugby Pacific, torneo down under con squadre neozelandesi, australiane, una fijana ed una selezione samoana residente in Nuova Zelanda.
I Blues riconquistano il vertice della lista dei Super Club dopo ben 21 anni. L’ultimo titolo conquistato sempre ad Auckland nel 2003 – il titolo del 2021 del torneo Trans-Tasman non è catalogato come Super Rugby – dopo aver perso la finale nel 2022.
“Si mancava da tanto tempo. È come essere diventati finalmente maggiorenni,” ci dice in esclusiva per l’Italia il CEO della franchigia Andrew Hore – da non confondere con l’omonimo ex tallonatore degli Hurricanes e All Blacks, “e come spesso accade in varie organizzazioni e club sportivi, se hai successo dopo un lungo periodo di tempo, tendi a rilassarti, anzi diventi estremamente vulnerabile. Da questa posizione si può andare in due direzioni: spingere verso l’alto e raggiungere altri traguardi, o ti senti appagato, come è successo probabilmente nel 2003. È risaputo che vincere per il secondo anno consecutivo diventa particolarmente difficile. Non possiamo permetterci di adagiarci sugli allori, ma dobbiamo essere concentrati e pronti alla partenza. (Vincere Il titolo) ha portato una pressione di tutt’altra natura rispetto alla pressione di vincere il titolo stesso.”
Negli ultimi anni la franchigia di Auckland ha lavorato in modo consistente per integrarsi nella vasta comunità rugbistica della propria area che comprende non solo la città di Auckland, ma anche il North Harbour, a nord di Auckland City, e tutto il Northland. Registrando un aumento consistente e stabile nel corso degli anni di abbonati, ha potuto contare su un forte supporto di tifosi che negli ultimi anni ha accompagnato la squadra nel suo viaggio verso il titolo, con ottimi risultati non solo in campo, ma anche, e soprattutto, sugli spalti.
I benefici tangibili della vittoria sono però altri come annota Hore: “Vincere ci ha permesso di raggiungere una posizione di forza dal punto di vista commerciale, ed è significativo essere riusciti a portare a casa più sponsor come conseguenza diretta.”
Vincere ha aiutato a mantenere il numero di abbonati, ma soprattutto oggi presenta l’opportunità per evidenziare i problemi generali che il rugby sta affrontando in Nuova Zelanda: “Abbiamo un numero di sfide che si concretizzano nelle figure del calcio e del rugby a 13” dice Hore, “e’ importante sedersi dove si possono apportare miglioramenti al nostro sport. Sono convinto che il Super Rugby è un gran torneo, il migliore al mondo, dobbiamo pressare la federazione (NZ Rugby) ad apprezzarlo di più, ad investire di più, come succede in altri sport che sono oggi i nostri rivali.
Bisogna prima di tutto enfatizzare le cose positive del torneo e i valori del torneo. Sono stato abbastanza tempo in Galles per conoscere anche il rugby in Italia, e so per certo che gli italiani, come i neozelandesi, conoscono bene i valori del nostro sport. Ecco bisogna sottolineare i benefici del nostro sport. Dobbiamo promuovere il rugby in Nuova Zelanda sapendo che abbiamo il miglior numero di talenti nel nostro torneo, nessun altro torneo dalle nostre parti ha lo stesso numero di giocatori di fama come noi, e sembra che non lo stiamo valorizzando in modo adeguato al momento. Siamo riusciti finalmente ad influenzare il resto del mondo con le regole del gioco che vengono provate da noi, regole che fanno bene al rugby, lo rendono più veloce e quindi più attraente per il tifoso.
Dobbiamo bilanciare il peso dell’alto livello e la base intorno ai tifosi, dobbiamo fare di più per i nostri fan. Prendi NFL, il torneo è corto, estremamente ben promosso, se vai allo stadio il tifoso è al centro dell’attenzione, allo stadio ci sono innumerevoli replay delle giocate, a ‘real fan focus’. Questi sono gli aspetti che secondo me sono importanti per mantenere il rugby come sport principale nel nostro paese.”
Il Super Rugby nasce nel lontano 1996 con l’avvento del professionismo nell’allora rugby amatoriale. Le Federazioni di Nuova Zelanda, Australia e Sudafrica firmano un contratto a tre che formerà la società commerciale a scopo di lucro Sanzar e il primo torneo professionistico chiamato Super 12 con franchigie proprio dai tre paesi down under. L’evoluzione del torneo australe ha visto l’arrivo, nel corso degli anni, di franchigie giapponesi e argentine fino alla disgregazione del contratto Super Rugby con l’uscita delle franchigie sudafricane durante il Covid – poi invitate in Europa dal United Rugby Championship – e la creazione del Super Rugby Pacific con le originali cinque franchigie kiwi, compagini australiane, un fijana e la selezione samoana, sanzionata da NZ Rugby.
È ineccepibile che la disfatta dentro e fuori dal campo del rugby in Australia abbia dato problemi al rugby neozelandese, così come il non potersi confrontare settimanalmente con le realtà sudafricane. Rimane naturalmente fermo il Rugby Championship con le quattro grandi nazionali All Blacks, Wallabies, Springboks e Los Pumas.
“Abbiamo sicuramente bisogno di una forte Australia ed hanno già fatto molti progressi. Bisogna incrementare la promozione del nostro sport anche in Australia e coordinare programmi di sviluppo per ragazzini in modo che possano crescere e poi rimanere in Australia e giocare nei club di Super Rugby.
Una nota positiva sarà avere una squadra in meno che consoliderà alcuni giocatori di talento. Bisogna ricordare che il rugby australiano era forte quando avevano tre super club. Se il tutto è poi supportato da una nazionale con un allenatore capace, si arriverà ad un cambiamento, anche molto veloce. Ci sono tanti tifosi di rugby in Australia che non vanno allo stadio perché’ questi ultimi anni sono stati particolarmente duri, ma sono sempre lì ad aspettare, e torneranno presto sulle tribune.”
La federazione australiana sotto la guida di Phil Vaughn ha appena reso noto il programma di sviluppo per riportare il rugby a 15 al successo, utilizzando anche i tornei che il paese ospiterà nei prossimi 10 anni, Irish & Lions Tour, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. Con l’annuncio della dipartita di Joe Schmidt come capo allenatore ad ottobre di quest’anno, la federazione è in cerca del prossimo allenatore della nazionale.
E le sudafricane? Il Super Rugby ha bisogno di loro per sopravvivere?
“Una competizione internazionale più estesa (geograficamente) è vitale. Dobbiamo rimanere focalizzati sul World Club Championship, ed al momento alcune federazioni non sembrano essere interessate come i club. C’è la possibilità di avere dei playoff basandosi sulla posizione geografica dei club. Quando affrontavamo i club sudafricani, che erano fuori del nostro fuso orario, perdevamo l’interesse dei tifosi per vie delle partite trasmesse a notte fonda. Secondo me bisognerebbe avere una competizione domestica, che poi fa accedere le squadre ad una competizione continentale con le sudafricane, e poi ci si sposta ad un torneo più globale come il World Club Championship. Quindi si, si possono riavere partite contro le sudafricane, ma non nel modo tradizionale a cui siamo stati abituati.”
La carriera amministrativa di Andrew Hore parte a metà degli anni 90 nella regione del Canterbury diventando il Performance Manager sia per la squadra di NPC che per i Crusaders. È il fautore della creazione della prima accademia dell’alto livello in Nuova Zelanda, dove giocatori under 20 vengono esposti alle dinamiche del rugby professionistico. Con la laurea in Sport Science, diventa Strength & Conditioning Coach per le due squadre di casa a Christchurch fino al trasferimento in Galles nel 2002 dove prende posizione come Conditioning Director, e fa parte della nazionale maggiore fino al Six Nations Grand Slam del 2005. Ritorna in Nuova Zelanda per un anno come High Performance Manager per poi tornare in Galles presso gli Osprey, prima come Performance Director e poi eventualmente come Amministratore Delegato.
È impossibile lasciar passare l’opportunità di parlare della situazione disastrosa del Galles: “Ho una mia idea a riguardo,” ci dice subito, “e sono preoccupato che stiamo seguendo una stessa linea qui in Nuova Zelanda. Il focus degli ultimi dieci anni è stato Team Wales e si sono dimenticati del prodotto locale, la base. Basta guardare dall’altra parte del St George Channel per vedere, in casa irlandese, come il mantenere un forte marchio a livello provinciale ha aiutato il rugby da quelle parti. E la mia paura e‘ che questa voglia di dare attenzione solo alla squadra in nero ci possa portare verso una simile conclusione. Dobbiamo analizzare ed imparare da ciò che è successo in Galles, ma anche in Australia, e capire che senza un forte amore per il rugby, senza una forte base, non si può rimanere forti a livello nazionale. Il rugby di base porta avanti il rugby di alto livello, ed alcuni amministratori hanno intrapreso il cammino al contrario.”
Tra gli Osprey e i Blues, nella carriera di Andrew c’è anche un intermezzo australiano nel New South Wales come CEO. Con ormai risapute difficoltà oggettive e finanziarie di super club e franchigie che si estendono come una ragnatela sul rugby professionistico mondiale dall’Australia al Galles, dall’Italia all’Inghilterra, ci si chiede quanto il rugby professionistico sia sostenibile, quanto sia difficile or ora gestire le casse e i giocatori di queste enormi squadre di rugby: “Ha le sue difficoltà, ma come tanti altri sport. Mi rapporto sempre con la A-League (il campionato professionistico di calcio tra Australia e Nuova Zelanda) che hanno meno tifosi di noi. Ma poi guardo anche a chi porta avanti il proprio sport molto meglio di noi, come per esempio le squadre di NRL (la lega professionista di rugby a 13 tra Australia e Nuova Zelanda).
Il fatto è che abbiamo difficoltà ad assicurare investimenti, ma ci dobbiamo chiedere che cosa cercano coloro che possono investire, e che cosa possiamo creare nei nostri tornei che possa creare interesse e terreno per eventuali investimenti? Cosa dobbiamo fare per far si che gli sponsor vogliano far parte del nostro mondo? Se guardiamo alcune delle nostre federazioni di rugby pensano solo ai propri club, mentre se guardi per esempio alla NFL c’è eguaglianza di distribuzione dei fondi, eguaglianza di distribuzione del talento, intenso come qualità dei giocatori. Oggi le federazioni che controllano le attività domestiche (come il cricket), si vedono poi arrivare concorrenti con tornei privati che sono ben gestiti, con sponsor, tifosi e soldi.
Non sono i club che devono cambiare, ma la struttura intorno ai club.”
I Blues apriranno la stagione 2025 con un sold out ad Eden Park sabato 15 febbraio.