Il Kingsholm applaude i suoi. Nemmeno troppo forte, a dir la verità, tanto fra 10 minuti o giù di lì torneranno a placcare, segnare, possibilmente anche a vincere.
Poi fa silenzio per qualche secondo, all’improvviso esplode in una ovazione. Lo vedi che non è più un ragazzino, Madre Natura poi si è divertita negli anni a rubargli poco alla volta i capelli biondi da putto pestifero, resta solo qualcosa vicino alle orecchie e ancor meno in capo, con la stempiatura che erode il terreno. In cambio ha lasciato qualche chilo, that’s life. Il ragazzone, maglia del club e jeans, saluta tutti.
Il pubblico si blocca. È costretto a fermarsi per l’emozione, poi riprende e porta a casa la giornata. È dura, è tanto dura per uno come lui. Fanno 14 stagioni sempre con la stessa maglia, quella di Gloucester, sempre a correre e a scorrazzare su e giù per il rettangolo verde, e allora potete capire che per uno come lui stare lì, quasi impalato, con un microfono in mano, non sia così facile. Tutti lo chiamano ancora con quel soprannome principesco mutuato da una serie televisiva della BBC.
Sin-bad, Sin-bad.
È difficile fermarsi.
Applaudono tutti, qualcuno non nasconde le lacrime, al vedere James Simpson-Daniel lì, al passo d’addio. Loro che l’hanno visto arrivare sbarbatello dal college nel 2001 e segnare la prima meta al debutto, contro Rotherham. Quel biondino conquista subito tutti. Sarà perché è proprio un bravo ragazzo, sarà perché in campo è a tratti incontenibile. La Federazione inglese lo nota subito e lo convoca per gli Hong Kong Sevens del 2002, lui risponde con una tripletta in finale. A chiamarlo, di lì a poco, è Clive Woodward, che non sarà ancora sir, ma che non si fa mancare una buona dose di fantasia in un corpo a volte un po’ troppo rigido e formale. Diciamoci la verità, Woodward non ha mai rischiato di far parte dei Monty Python, ma uno così, un giocatore con quelle accelerazioni, quella capacità di variare e stracciare spartiti e quella libertà di pensiero nella sua Inghilterra lo vedrebbe benissimo. Uno così, nell’armata dei papà, non ce l’ha. Se ne accorgono tutti quando a Twickenham arrivano i Barbarians: Simpson-Daniel riceve palla da primo uomo in piedi, finge il passaggio, pianta giù una curva da duecentista attorno all’ala avversaria e brucia l’estremo in bandiera.
Perfetto. Ora sostituite “ala avversaria” con “Jonah Lomu” e “estremo” con “Chris Cullen” e fatevi due calcoli. È il 26 maggio del 2002, a James mancano 4 giorni per compiere 20 anni. Twickenham viene giù. Il ragazzino ha una velocità di base molto elevata, ma il bello è che a quella stessa velocità sa debordare, cambiare direzione nello spazio in cui un Alberto Tomba inforcherebbe di brutto e comunque controllare tutto ciò che lo circonda. Oltre a tutto questo buttateci dentro gli anni del college con la maglia numero 10 addosso, anni che gli hanno regalato un repertorio smisurato di finte, passaggi e colpi d’occhio. È praticamente un concentrato di solidità mentale inglese, garretti isolani e fantasia che ti insegnano solo da Grenoble in su, al di là delle Alpi (ammesso si possa insegnare). È potenzialmente spaventoso e no, Clive Woodward ha guardato bene, uno così proprio non ce l’ha in squadra. Solo che deve aspettare i test autunnali per rivederlo in campo, il ragazzo si becca la mononucleosi e deve saltare il tour in Argentina. Segna la sua prima meta in bianco contro di noi nel Sei Nazioni 2003, ma poco dopo deve arrendersi a dei forti dolori alla schiena, Woodward lo deve depennare dalla lista per la Coppa del Mondo. Ma il ragazzo ha 21 anni, ha tutto il tempo di rifarsi. Solo che non finisce qui: salta tutti gli incontri dell’autunno del 2004 e il Sei Nazioni del 2005. Rientra in un test contro Samoa e si rompe l’osso del collo. No, la rosa sul petto è bella, bellissima, gli sta benissimo addosso, ma il prezzo da pagare non è sempre nelle sue tasche.
A Gloucester, invece, è un’altra cosa: è uno dei beniamini del Kingsholm: in campo dà spettacolo, fuori è quello che si chiama un one-club-man, qualcuno di famiglia o giù di lì, visto che non avrà altre maglie al di fuori di quella cherry and white. Si trova talmente bene da quelle parti che chiamerà Mike Tindall e Nicky Robinson, compagni di squadra, a fare da padrini al battesimo della figlia. Con lui acquisteranno pure un cavallo da corsa, ma questa è un’altra storia. Nel 2006 contribuisce a far segnare la meta più bella della stagione sciroppandosi 50 e più metri di campo e di corsa sgarruppata, circumnavigando più volte Lawrence Dallaglio, che pure è uno che nel rugby a sette il suo l’ha sempre fatto, ma che ad un certo punto deve chiedere perdono ai punti cardinali. Poi serve James Bailey che schiaccia in bandierina. Robe da matti. In Nazionale ci torna in occasione del 6 Nazioni 2006, segna pure un’altra meta all’Italia, poi però si dimette Andy Robinson a seguito della disfatta di Twickenham contro i Pumas. Sulla panchina inglese arriva Brian Ashton, che non lo vede troppo. Guadagnerà da lì in poi un solo cap, contro il Sudafrica in un match di preparazione alla Coppa del Mondo, segnerà pure l’unica meta nel disastro inglese (58-10). Poi più nulla, un continuo limbo nei Saxons (la Nazionale “A” inglese), anche se rientra nel gruppo allargato che si prepara per la Coppa del Mondo del 2011.
Poi la caviglia cede ancora, Sinbad dice basta.
Lo fa durante un match, quando le primavere sono trentadue, nemmeno troppe.
Il Kingsholm ha appena applaudito i suoi, nemmeno troppo forte, tanto fra 10 minuti o giù di lì sarebbero tornati a placcare, segnare, a vincere contro il Sale di Danny Cipriani. Fa silenzio per qualche secondo, poi esplode in una ovazione. Uno dei giocatori più forti e meno baciati dalla fortuna degli ultimi anni sta rendendo grazie al suo pubblico, a chi lo ha sostenuto più di un paio di caviglie esplosive ma bizzose e rese ballerine dal tempo. Qualcuno diceva che la sensibilità è la vera maledizione di certi artisti, perché è quella cosa che cercano di mostrare il più possibile al pubblico con le loro gesta e coi loro gesti. La qualità più preziosa, più esposta, e perciò resa ancor più fragile dal deserto attorno. Perché le caviglie di Sinbad gli hanno permesso di navigare, di attraversare venti contrari, di segnare 120 mete in Premiership e altre 21 in Europa. Di calcare i campi inglesi per 274 volte in 13 anni di carriera. Quelle caviglie gli hanno permesso di buggerare, all’alba dei 20 anni, gente come Jonah Lomu e Chris Cullen. Madre Natura poi si è divertita negli anni a rubargli poco alla volta i capelli biondi da putto scherzoso e dispettoso, ma anche una bella dose di solidità nelle articolazioni. Le caviglie che tante volte l’avevano sorretto e portato in trionfo gli hanno poi accorciato lo spettacolo, gli hanno tagliato qualche fondo, si sono riprese parte di quel che avevano regalato, si sono prese anche qualche lacrima trattenuta da James lì, al centro del Kingsholm, col microfono in mano e qualche capello in meno all’appello. Emozionato, commosso da tutta la famiglia che ha saputo coinvolgere negli anni, quasi scosso dagli applausi.
Onore a Sinbad, filibustiere senza mare, e pazienza se il Sinbad a cui lui assomiglia ha poco di principesco e molto di albionico. Uomo dalle mille e una avventura, dalle mille e una corsa. Lupo di mare, anzi d’erba, che torna sempre dove l’erba si fa un po’ più alta, diversa. Dietro quei pali, che come un faro indicano la via sicura. Indicano dove bisogna gettare l’ancora il più possibile.
Lo hanno visto spesso attraccare al di là di quel verde, a Gloucester e dintorni.
E quel mare, da quel giorno al Kingsholm in poi, è meno profondo del solito.