Una doccia gelata.
Questo deve’essere stato l’effetto di quel comunicato della Federazione. Poche righe, due significati. Il primo: è stata infranta una regola sull’utilizzo dei giocatori extracomunitari. Il secondo, quello peggiore, quello che lascia veramente il segno: la classifica è compromessa. Ampiamente compromessa, se è vero che a otto giornate dal termine la Lazio ha sette punti di ritardo dai penultimi, i ragazzi del Valsugana, e undici dal Verona, squadra al momento salva e che ha appena beneficiato della sconfitta a tavolino laziale, avvenuta al termine dello scontro diretto.
E, cosa da non sottovalutare, squadra che sembra aver trovato il bandolo della matassa dopo un inizio di torneo all’insegna dei peccati di gioventù. No, non è facile.
Però si ritrovano tutti all’Acqua Acetosa, quel giorno.
Ci si guarda tutti in faccia, ci si parla, ci si confronta.
Chi non ci crede è libero di andarsene.
Non se ne va nessuno, restano tutti.
Se retrocessione deve essere, che lo sia senza rimpianti.
La Lazio si salva qui, ma ancora non lo sa.
O forse lo sa, certo che lo sa, ma non lo sa l’aritmetica.
C’è sempre un gusto particolare, quando si frega l’aritmetica.
Inizia una corsa contro il tempo. La rosa della Lazio non è eterna come quella delle grandi, non ha le risorse economiche di un Calvisano, né la piazza è più abituata alla lotta per i piani alti come Petrarca e Rovigo. Il cuore, però, non ha nulla da invidiare a quello di tutti gli altri. La squadra si ricompone, getta il cuore oltre l’ostacolo, ma a tre giornate dal termine ha ancora nove punti da recuperare al Verona e cinque al Valsugana. Su ventuno partite sono arrivate solamente tre vittorie, pochissime per scacciare tutti gli spettri e per non chiedersi, almeno una volta, almeno in silenzio, chi ce lo fa fare.
È una corsa disperata.
Non tanto per i punti da recuperare, quanto perché non potrà dipendere tutto da quel che succede quando in campo ci sono i colori biancocelesti. Prendete la terz’ultima giornata, per esempio. La Lazio espugna Firenze e si prende pure il punto di bonus offensivo, ma Verona vince in rimonta su Valsugana, i punti dalla salvezza restano otto. Poi prendete il derby, al Giulio Onesti arrivano le Fiamme Oro, squadra che all’alba del torneo sembrava in grado di poter bissare i playoff dell’anno precedente, ma che poi ha dovuto arrendersi alla voglia e alla grinta del Valorugby. È durissima contro i cremisi, a venti dal termine la Lazio è sotto per 31 a 17 e da Verona non arrivano grandi notizie, visto che gli scaligeri, pur perdendo, hanno segnato quattro mete a Rovigo. Sarebbe retrocessione aritmetica, senza se e senza ma. Solo che certe volte il pallone rimbalza strano, e allora Ercolani riporta sotto i suoi. Poi Bruno schiaccia in meta al settimo minuto di recupero e firma il sorpasso. Ancora quattro punti di distacco, mancano ottanta minuti alla fine. La Lazio va a Padova, bisogna battere il già retrocesso Valsugana. Arrivano cinque mete, ma l’attenzione va a Viadana, visto che il Verona è in vantaggio ad un quarto d’ora dal termine. Poi però arriva la meta di Pavan, e allora la classifica dice Lazio 30 punti, Verona 30 punti.
Spareggio.
E si riparte da quella quattordicesima giornata, da quella penalizzazione.
Da quel maledetto pomeriggio che avrebbe potuto mettere la parola fine alla lotta molto prima dei titoli di coda.
Di nuovo Verona, un’altra Verona.
No, gli scaligeri non sono più la squadra di inizio stagione. Sono più maturi, più squadra rispetto al composto poco amalgamato che aveva iniziato la stagione. Era del tutto preventivabile un inizio così, a dirla tutta. Perché sì, non è male mettere in campo gente che ha giocato in Pro12, in Nazionale Italiana, in Currie Cup o comunque di solito abituati a ben altri lidi del campionato italiano. Non è male avere un progetto importante alle spalle e un nuovo impianto di gioco.
Solo che per mettere insieme una squadra ci vuole del tempo, non bastano i curricula. Non basta avere un mediano di apertura già titolare con la maglia di Ulster, James McKinney, non basta Lorenzo Cittadini in prima linea, non bastano i tanti mestieranti di buon livello ingaggiati (Mortali, Bernini, Buondonno tra tutti). La squadra fatica, cambia allenatore in corsa, appare in molte occasioni slegata, poco corale, ma a due giornate dal termine le bastano due punti per salvarsi.
Per essere sicuri al cento per cento sarebbe meglio tre, ma quale squadra intrappolata in quelle zone limacciose della classifica può riuscire a mettere in saccoccia tutti i punti possibili?
La Lazio, appunto. Quindici punti su quindici a disposizione. Un allenatore, Daniele Montella, che prima di sedersi in panchina ha portato a spasso la maglia biancoceleste per un bel po’, e che quindi sa toccare le corde giuste in uno spogliatoio che avrebbe, ad un certo punto della stagione, tutte le ragioni e le scusanti per saltare in aria. Una squadra compatta e coraggiosa, che non gioca quasi mai a chi ne prende meno. Una rosa con minore qualità rispetto a quella avversaria, ma guai a pensare di aver già lo scalpo laziale in tasca. Per referenze chiedere al Petrarca, costretto ad andare per i pali a tempo quasi scaduto per portare a casa una partita ormai data per vinta già da molti minuti. O al Viadana, domato in rimonta. O alle stesse Fiamme Oro, che non hanno ancora capito cos’è successo negli ultimi venti minuti all’Onesti.
La Federazione decide che l’ultimo atto, quello decisivo, si deve giocare sul campo neutro di Padova.
Che, se proprio non avevate 2 in geografia, non è poi un campo così neutro.
Ma sono in tanti ad arrivare da Roma per sperare che il Santo stenda la sua mano su quel pezzo di periferia in cui sorge il Plebiscito.
La partita non è bella, difficilmente una partita così decisiva riesce ad essere anche bella. Le due squadre hanno qualche limite tecnico-tattico, dopo qualche fase le mini-unit si sfaldano, gli ovali scivolano a terra, i ventagli dei trequarti dopo qualche azione sono solamente un ricordo. Passa il Verona con un calcio di Mortali, replica subito Bonifazi. Le fasi statiche vedono un lieve vantaggio dei veneti, ma la Lazio risponde mettendo in maul pure l’estremo e i centri, con Buondonno che deve fare un miracolo per evitare che gli avversari vadano oltre. Il biondo ex giocatore della Benetton non può nulla qualche minuto dopo: fase su fase nei 22 veronesi, poi palla a Ceballos. Il numero 10 argentino attacca la linea e serve Guardiano, che si butta nell’intervallo e va oltre, 10 a 3. I tifosi laziali presenti allo stadio si fanno sentire forte, il Verona sembra accusare il colpo. Hanno battuto la Lazio due volte su due in campionato, ma oggi sembra mancare il centesimo per fare l’euro: i possessi ci sono, ma vengono sprecati appena si avvicinano alla linea di meta: vuoi perché qualcuno comincia a sentire il peso del match, vuoi perché la difesa della Lazio si attacca a tutto il mestiere del mondo.
Talmente tanto che arriva anche il cartellino giallo, ma il Verona non ne approfitta.
La ripresa non è che la fotocopia del finale del primo tempo: il Verona prende in mano il pallino del gioco, la Lazio soffre e riparte. Gli scaligeri, però, riescono ad andare in meta: Mortali spreca un tre contro uno, ma Pavan riceve palla, finta e schiaccia vicino alla bandierina. Sembra l’inizio della rimonta, ma la partita vive alcune fasi di stallo: Bonifazi allunga dalla piazzola, Mortali risponde. I cambi sembrano favorire i veneti, più lunghi in alcuni ruoli, ma Grant Doorey, che faceva parte dello staff di Kirwan in Nazionale e che ha sostituito Zanichelli in panchina a stagione in corso, decide di cambiare i piloni poco prima di una mischia poco fuori dai 22 laziali. Non è una gran decisione, visto che la mischia laziale arrota quella avversaria e fa rifiatare i suoi. Manca ancora tanto alla fine, la lucidità comincia a latitare da entrambe le parti. È come quando nei grandi giri ciclistici si deve affrontare una cronometro. Quella crono dovrebbe vedere favorito chi sa far andare le gambe contro l’orologio, ma non sempre va così. Spesso quelle gare le vince chi ne ha di più, non chi ha il blasone, e tra le due squadre in campo non è il Verona ad averne di più.
Sul terreno del Plebiscito ci sono due pugili sfatti di fatica e botte, ma che non hanno ancora abbandonato la voglia di rimanere nella massima serie e di ripetere questo esercizio di fatica per altri anni a venire.
Gli ultimi dieci minuti sono agonici. Si gioca poco, nessuno vuole veramente rischiare di perdere palloni sanguinosi. Il Verona si getta ancora in avanti, Mitrea allarga il braccio dopo un paio di difese che non troverete in alcun manuale del rugby. Mortali dalla piazzola non sbaglia, è sorpasso.
Una doccia gelata. Quasi come quel comunicato che sapeva tanto di condanna. E, cosa da non sottovalutare, contro una squadra che ha trovato il bandolo della matassa dopo un inizio di partita all’insegna dei peccati di gioventù. No, non è facile ora.
Non è facile perché quei quindici punti su quindici nelle ultime tre giornate, quel ritrovo all’Acquacetosa da cui nessuno si tirò indietro, quegli ultimi venti minuti del derby rischiano di finire ben riposti nel dimenticatoio. No, non può finire così.
E infatti la Lazio riparte. Fa una fatica dannata, quei raggruppamenti sono struggenti e devastanti, i palloni sono lenti, ma Verona fa fallo a metà campo. Fanno quasi 55 metri di calcio, Bonifazi si consulta e sceglie la touche. Manca poco, pochissimo. Il calcio è lungo, sembra uscire all’altezza dei cinque metri, ma Mortali lo abbranca a pochi centimetri dalla linea. L’estremo veneto può calciare tranquillamente dall’altra parte di Padova, è salito un solo avversario e non è nemmeno così vicino. Si prende tutto il tempo, ma il pallone prende in pieno la punta e vira, bassissimo, verso metà campo. Lo cattura Ceballos a metà campo.
E si riparte, centimetro su centimetro. Raggruppamento su raggruppamento.
Verona rallenta bene i palloni, ma poi Greeff, professione pilone di riserva, fa l’unica cosa che non deve fare.
Quella è una ruck destinata al tenuto, è un pallone che, nel giro di qualche secondo potrebbe tornare in mano ai veneti. Greeff, però, tenta di pulire entrando lateralmente. Mitrea, professione arbitro, fischia.
Linea dei dieci metri. E Bonifazi questa volta chiama i pali.
Dentro, controsorpasso.
I tifosi della Lazio piantano giù un casino che sembra siano dieci volte di più di quelli assiepati in tribuna.
La partita finisce praticamente qui.
Giocatori e allenatore si abbracciano in mezzo al campo. Forse, un giorno, ricorderanno quel campo neutro che neutro del tutto non era. Quel comunicato che sembrava la pietra tombale di una stagione nata male e proseguita peggio. O di quel gruppo che, all’Acquacetosa, si decise a chiudere la stagione senza rimpianti di sorta.
Si diranno che forse, quella stagione 2018-2019, non è finita proprio così.
Che non può essere andata veramente in quel modo.
Chi non ci crede è libero di andarsene.
Noi rimaniamo.