Mi chiamano così, io nel dubbio mi giro sempre, anche se mi battezzarono con un altro nome. Dicono che abbia il viso, i lineamenti da indiano. I capelli al vento, selvaggi come una indomabile criniera. E che il mio sangue vada a ritmo di una qualche melodia gitana, scarmigliata nelle note e nel vento. Scarmigliata eppure così radicata a terra. Come il mio nome, Ivan, che è un nome straniero, di origine slava, sta per Giovanni. Aereo, rapido, fuggevole, eppure così radicato a terra, visto che Giovanna è il nome di mia madre.
Dicono che gli slavi siano maestri nell’apprendere le lingue, io non ho mai parlato più dell’italiano. Come quando diventai una celebrità a Otley, Gran Bretagna, durante la Coppa del Mondo. Mi chiamavano tutti, Ivan o Aivan, e io replicavo con un semplice “Sì, so mi”. No, meglio il dialetto che l’italiano, ma mi sono sempre fatto capire.
Con le parole e con le gambe, con la testa e con le mani.
Soprattutto con un pallone da rugby in mano.
Non era difficile, a casa mia. Due sorelle più grandi, poi cinque fratelli maschi, tutti rugbisti. Io non potevo essere da meno, ma mica nessuno mi ha mai forzato, anzi. Ero io quello che voleva giocare a tutti i costi. Quanti calci sugli stinchi ho dato a Ino, che mi diceva che ero troppo piccolo per gettarmi nella mischia! Dovette ricredersi, di lì a poco. Non avevo le cosce di Rino, né il torace di Nello, ma il fascio di nervi di cui ero fatto mi permetteva di non soccombere davanti a nessuno. Noi della Tarvisium non soccombevamo davanti a nessuno, mai. Si perdeva a volte, certo che si perdeva, ma non si mollava nulla. A volte eravamo leggeri, troppo leggeri per competere, ma non ci siamo mai arresi. È così che siamo arrivati nella massima serie italiana, lottando su ogni pallone, giocando fino alla fine. Anche quando il fisico non era il nostro punto di forza. Non il mio, almeno. Certo, giocassi oggi sarei uno scricciolo davanti a troppi pachidermi, ma nemmeno ai miei tempi pesare 76 chili era tanto facile. Avevo un fisico “normale”, forse un po’ troppo longilineo rispetto ad altri giocatori di categoria.
Io, però, avevo le gambe. Nevrili, tenaci, esplosive. Correvo, ma correvo in un modo che in tanti non avevano mai sperimentato.
Corsa rotta, la chiamerebbero oggi. Schinche, le chiamavo io. Schivanelle, a volte.
Vedevo il buco e mi ci buttavo, anche se fino a un secondo prima sembrava andassi in tutt’altra direzione. E poi scattavo. Ero uno dei migliori nello scatto secco. A Treviso, un giorno, mi cronometrarono nei 30 metri, feci 3 e 80, 3 e 85. Meglio di me fece solo un australiano qualche anno dopo, tale Brendan Williams. Non ero un velocista, dopo lo scatto tendevo a perdere velocità rispetto ad altri, ma io ero già oltre. Il pallone in altre mani. O, forse, schiacciato a terra oltre la linea bianca. Mi ricordo le facce dei romeni al mio debutto in Nazionale: erano grossi, fortissimi, ma avevano perso troppi uomini dopo la caduta di Ceausescu. Grossi, fortissimi, ma mica si aspettavano che riuscissi a passare nei pertugi che lasciavano. E i trequarti americani a Otley, che mai si sarebbero aspettati che attaccassi il lato chiuso, quella striscia di terra in cui mettere il piede in fallo era un attimo. O il volto nero di rabbia dell’allenatore del Petrarca quando seminai quattro o cinque suoi giocatori: avevano già vinto quella partita, erano nettamente più forti, ma quella meta quello lì in panchina non voleva proprio prenderla. No, forse non riuscivano a capire cosa mi suonava dentro, o forse abboccavano troppo facilmente a quella che credevano fosse una finta de cavei, una finta di capelli. Di sicuro non guardavano il campo con i miei occhi, non riuscivano a vedere quel che vedevo tra maglie, placcaggi e linee di gesso. Ma mica le dico io, ‘ste cose, mica sono così vanaglorioso. Me le raccontavano quelli che guardavano le mie partite, dentro e fuori dal campo. Io, puntualmente, li mandavo tutti in mona. Poi ripartivo.
Ci salvammo nella massima serie, poi passai alla Benetton. Che se sei nato dove sono nato io non è esattamente come andare al Petrarca o al Rovigo. No, per chi nasce al quartiere Giuseppe (San Giuseppe, ma qui non ci sono santi che tengano) andare a giocare con la squadra dei quartieri benestanti non è proprio una passeggiata. Mi trovavo bene però, insieme a quei compagni che una volta mi divertivo a sfidare nei derby. Eravamo una bella squadra, molti di noi erano pure stabili in Nazionale. Che bella, quella Nazionale. Fourcade mi aveva fatto debuttare, poi arrivò Coste. Aveva intuito che il ragazzino spedito a Mirano a farsi le ossa, Alessandro Troncon, sarebbe diventato un grande numero 9. Mi spostò ai centri, complice un infortunio occorso a Filizzola.
Non è che mi feci troppe domande, giocai e basta, per quei colori avrei giocato pure pilone.
Per quel gruppo avrei giocato pure pilone.
Iniziò una scalata che ci avrebbe portato ad essere invitati a giocare nel Cinque Nazioni, che con noi avrebbe cambiato formato e storia. Il 6 Nazioni. Conquistato sul campo per tutti gli anni ’90. E a Grenoble, anche se quel giorno non me lo ricordo mai volentieri. Quell’infortunio mi annebbiò gli occhi, li fece piovere. Io volevo dare tutto, volevo dar seguito a quella meta, ma quell’infortunio mi tarpò le ali.
Forse avrei dovuto capire qualcosa, quel giorno.
Ma quel 1997 me lo ricordo anche per lo scudetto strappato al Milan. Bella squadra quella: Dominguez, Properzi, Croci, Giovanelli, Pedroni. Ci avevano svegliato dal sogno per due volte, sempre in finale. In quella stagione ci avevano battuto due volte su due. A complicare la situazione ci pensò Tronky. No, non fraintendete, era veramente uno dei numeri 9 più forti d’Europa. Solo che quella mattina si svegliò con la febbre, e allora toccò a me. Artuso e Collodo arrivarono in cameria mia sull’orlo della disperazione.
“Disime cosa go da far”, dissi loro.
Il passaggio ce l’avevo ancora, l’inventiva pure, al resto ci pensarono i miei compagni. Scudetto.
Ma quello non era più il rugby dei miei primi anni. Era iniziata l’era del professionismo. Me ne accorsi quando la bilancia piano piano aveva cominciato a regalarmi chili su chili di muscoli, ero arrivato a 85 e avevano cominciato ad aumentare gli acciacchi. Quando carichi troppo un telaio forte ma delicato come il corpo umano i problemini cominciano a moltiplicarsi.
E, soprattutto, quando mi resi conto che ben presto gli allenamenti e il lavoro non sarebbero più stati compatibili. Lavoro, i lavori. A fianco di mio fratello Manuel nella ditta di imballaggi, poi con l’altro mio fratello, Piero Dotto. Un fratello col cognome diverso, ma col cuore simile al mio.
Forse troppo.
Aprimmo il “Players” in zona Fonderia, locale fatto apposta per bersi una birra dopo partita e allenamenti. No, non era cosa riuscire a stare dietro a tutto, ma ci volevo provare. Ancora un po’, giusto per non arrendermi a quei soprannomi che mi avevano accompagnato lungo la mia strada ovale.
Selvaggio. O Indiano. Zingaro, in alternativa.
Mi chiamavano così, io nel dubbio mi giravo sempre, anche se mi battezzarono con un altro nome. Dicono che avessi il viso, i lineamenti da indiano. I capelli al vento, selvaggi come una indomabile criniera. E che il mio sangue andasse a ritmo di una qualche melodia gitana, scarmigliata nelle note e nel vento.
Mi chiamavano, non mi chiamano più.
A 31 anni non sono riuscito a schivare il placcaggio più duro.
Non mi ero sentito benissimo, quella sera, ma non ci avevo dato molto peso. Nella mia vita stavano cambiando un po’ di cose, non avevo avuto il tempo di prepararmi a questa botta dal lato cieco. Arteriosclerosi delle coronarie, che per un atleta in attività sembra veramente il colmo. Trentun anni sono pochi, ragazzi, sono tanto pochi, anche se si è costretti a correre da una parte all’altra della vita. A Giuseppe, scusate, San Giuseppe, mi hanno salutato in cinquemila, poi sono salito quassù.
Si sta bene di qua, anche se ci sono troppi giovani che meritavano un giro in giostra di più al piano di sotto. Anche rugbisti, certo. Come Piero, il mio sesto fratello, che quel giorno mi portò in spalla e che aveva il cuore forse troppo simile al mio. Come Max, Massimiliano Capuzzoni, persosi in una profondità che non gli ha restituito meriti. Pierpaolo Pedroni, grande e fiero avversario anche qui sopra. E come quel neozelandese forte. Tanto forte. L’unico a scherzare i miei placcaggi in un lontano pomeriggio bolognese. Lo dicevo che avrebbe fatto strada, ma non avrei mai voluto vederlo da queste parti. Non ora, almeno, lui e quegli occhi spauriti da bimbo che aveva visto troppo montati su un corpo che smuoveva montagne.
Ci si diverte, da queste parti, abbiamo messo su una bella squadra.
Le iscrizioni le accettiamo sempre mal volentieri.
Un giorno, spero il più tardi possibile, vorrei incontrare colui o colei che ha ricevuto in dono le mie cornee. Vorrei chiedere se è bello, come dicono ancora laggiù, vedere il mondo coi miei occhi. Vedere oltre le tenebre, oltre la luce, essere sempre alla ricerca di spazi che non ci sono.
Della melodia gitana ho già avuto conferma, la sentono anche qui.
Mi chiamano Selvaggio. O Indiano. Zingaro, in alternativa.
Ma pure Ivan Francescato.
“Sì, so mi”, rispondo di solito.
Sono io.
Non me ne sono mai andato, in verità.
Sono sempre qui, in ogni vostra schinca, in ogni vostro cambio di passo, ogni volta che andrete oltre.
Mi sentirete nel vento che vi accarezzerà i capelli scarmigliati, nei suoni lontani che andranno e torneranno nelle vostre orecchie, nei cieli e giù per le terre.
Ogni volta che manderete il destino al bar.
Almeno per un altro po’.