“Ma fai il bravo, Mark, metti via quei soldi e vai a scolarti un po’ di pinte, fai un piacere”
“No, le 50 sterline le gioco come e quando voglio”
“Ascolta: siamo famosi da queste parti per accettare ogni tipo di scommessa. Ma vuoi proprio che ti dica che la tua è un suicidio? Tuo figlio recordman di mete col Galles? Ma se l’hanno già cacciato una volta dalla squadretta perché troppo mingherlino! Tu sei pazzo!”
“Tu prendi sti soldi e poi ne parliamo”. Tac, 500 a 1. Grazie e arrivederci.
Si, in Gran Bretagna ogni cosa può essere scommessa, dal nome del prossimo pargolo del principe alle volte in cui riuscirai a entrare in camera della signorina Smith, vostra compagna di classe al liceo e non propriamente conosciuta per il suo cammino terreno di redenzione e purezza. Basta presentarsi in un apposito ufficio, spiegare su cosa e quanto scommettere, lasciare i soldi. E poi aspettare, al limite ritirare la vincita. Il buon Mark non fa niente di diverso, prende 50 sterline e scommette che il figlio, un giorno, riuscirà a battere il record di mete segnate con la maglia del Galles.
Dite la verità, un po’ state pensando a quei padri che inveiscono sulla loro prole durante le partite alle nostre latitudini, quelli che hanno figliato i prossimi Maradona, Van Basten o altro. Ecco, qua la cosa non è tanto diversa, solo che qualche soldino i papà, ogni tanto, riescono a farlo.
Come ha fatto Gerry McIlroy, padre di Rory.
Come ha fatto John Morrey, zio di Wayne Rooney.
Come ha fatto il nostro Mark, che di cognome fa Williams e una ventina d’anni prima ha messo al mondo un ragazzino con la faccia da simpatica canaglia e che a fatica arriva al metro e settanta. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Uno che adesso il rugby saluta ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark, forse, con questi chiari di luna, non passerà più.
Il figlio di Mark si chiama Shane, Shane Williams, e questa è una di quelle storie di cui si rischia sempre di innamorarsi. Perché quelli che nella loro carriera, e nella loro vita, hanno una seconda chance hanno sempre una discreta storia da raccontare. E perché quelli che riescono ad entrare nella storia di uno sport ruvido e senza tregua come il rugby senza però essere apparentemente Superman meritano sempre una birra pagata al bar più vicino.
“Sei bravo, perché sei bravo. Ma uno come te con noi si fa male. Vai a giocare a calcio!” E se ricevi una botta del genere quando sei un imberbe liceale rischi di rimanerci. Shane no, prende e va a giocare a calcio. Lo mettono subito in porta. Portiere.
Si vede che neanche dalle parti di Swansea non si salta di gioia all’idea di voler giocare in porta. Se ne vedono proprio pochi, ai nostri tempi, di portieri alti 170 centimetri compresi i tacchetti. Lui però lo fa, e neanche tanto male, visto che porta la sua squadra in finale.
Lo vanno a vedere spesso dei suoi amici. Alla fine di una delle tante partite, tra una lattina e l’ennesima conquista terminata con uno 0 a 0 senza emozioni spunta una palla ovale. Spunta sempre una palla ovale tra amici, a Swansea e dintorni. Se la passano, corricchiano, forse improvvisano una partita al tocco.
Sta di fatto che qualcuno gli dice: “Oh ma vieni anche tu a Neath”
“Ma non ci sono grandi squadre di calcio a Neath”
“E chi ha parlato di calcio? Te sembri nato con la palla ovale in mano”
Non è che se lo faccia ripetere ancora tante volte.
Boh, forse ancora si chiedono che fine abbia fatto quel portierino.
Ma forse è giusto così. Anche perché alla prima partita importante questo segna 5 mete e comanda la mischia come pochi avevano fatto finora.
Come la mischia?
Già, perché viste le minute proporzioni gli mettono la maglia numero 9, a Neath sarà il mediano di mischia di riserva finché coach Lyn Jones si fa due domande e dice: “Ma uno così come faccio a tenerlo fuori?”
E lo mette all’ala.
Chiudete pure tutto.
Shane sarà pure piccolo e neanche tanto muscoloso, ma lavora benissimo su quelli che possono essere i suoi punti deboli. E sfrutta alla grandissima quel che Madre Natura ha dato in abbondanza: ha una coordinazione psico-motoria tale da permettergli di essere competitivo in qualsiasi sport decida di praticare. Non è velocissimo, ma ha uno scatto da centometrista e appoggi che su un campo da rugby in pochi avevano portato e provato fino ad allora. Sembra che lo prendi, ma questo ti ha già lasciato lì. È come quando Garrincha e gli altri brasiliani con ascendenti indios dovettero mutuare alcuni movimenti dalla capoeira per non farsi picchiare (cosa molto più che tollerata) da certi difensori bianchi. È il crossover di The Answer, al secolo Allen Iverson, un altro piccoletto che sul parquet ha messo a sedere giganti e dileggiato Michael Jordan grazie ad un cambio di velocità e di passo mai più visti a quei livelli. Shane è tutto questo, a parte una vita privata molto più tranquilla e morigerata, visto che sposerà la fiamma del liceo. Ma non è tutto qui: il ragazzo sa giocare al piede e placca come un demonio. Per referenze chiedere a Matt Banahan, ala inglese che gli da 35 chili e 30 centimetri, che ancora si sta chiedendo cosa si sia messo tra lui e la linea di meta quel giorno. O a chiunque altro si sia fatto ingannare dalla stazza dell’eterno ragazzino.
Uno così, per forza di cose, va a finire in Nazionale. Debutta nel 2000, segna la sua prima meta di lì a poco, al suo primo match da titolare, contro l’Italia. Fino al 2003 giocherà poco coi Dragoni, si mettono di mezzo infortuni e uno Steve Hansen, QUELLO Steve Hansen, che non lo vede tantissimo. A quella Coppa del Mondo il coach lo fa debuttare contro gli All Blacks, di fatto per far rifiatare la squadra titolare che se la vedrà poi con l’Italia per passare ai quarti.
Ecco, contro i tuttineri il Galles fa la partita più bella del Mondiale, mette più di qualche tarlo nella testa degli avversari e Shane Williams segna anche una meta. Steve Hansen si rifarà discretamente, come allenatore, nel dubbio il piccoletto con la maglia numero 11 si gioca i quarti da titolare. Il primo tempo è uno spettacolo, la Nazionale dalle 3 Piume gioca a tutto campo e fa venire i brividi ai bianchi d’Inghilterra. Solo che quelli sono in una condizione psico-fisica invidiabile e hanno un biondino di nome Jonny al timone, per il momento non è cosa. La portano a casa nella ripresa, ma quell’undici rosso lo cominciano a conoscere e riconoscere tutti. Se ne rendono conto anche a Swansea, e allora dal 2003 debutta anche nella Celtic League con gli Ospreys.
Finché rimane in Europa non giocherà con altre squadre.
Il ragazzo miete vittime e segna mete in ogni dove, ma la consacrazione arriva nel 2005: il Galles porta a casa il Grande Slam, lui segna al debutto contro l’Inghilterra, poi si ripeterà contro Italia e Scozia e vola in Nuova Zelanda con i Lions. Segnerà qui il suo record di mete in un incontro internazionale, 5 contro Manawatu, ma il tour vede i Lions bastonati dagli All Blacks e da una serie di convocazioni ad esser buoni poco comprensibili. Nel 2007 al Mondiale segna una delle sue mete più belle nel giorno forse più triste del rugby gallese, quello della sconfitta con le Fiji. Shane è un leone contro quei giganti, sembra Tomba a Schladming, ma non basta, è proprio la squadra a non essere mai decollata.
Si rifarà nel 2008, eccome se si rifarà.
Arriva un altro Grande Slam, Shane è praticamente inarrestabile. Segna 6 mete nel torneo ed è eletto giocatore del torneo. L’ultima meta segnata alla Francia gli permette di superare Gareth Thomas per mete segnate con la maglia gallese. 41 a 40. Gareth Thomas era il primo in classifica, all’epoca.
Nel frattempo, a Swansea e dintorni, qualcuno è entrato in un centro scommesse.
“Signori buongiorno, sono Mark Williams, sono venuto a riscuotere. Non so se vi ricordate di me. Avevo scommesso che mio figlio avrebbe fatto più mete di tutti, qui in Galles. Mio figlio si chiama Shane, ecco la ricevuta”.
Ecco, fate 50 sterline per 500 e fatevi offrire una birra, se capitate da quelle parti.
Shane ne aggiungerà ancora qualcuna, arriverà a 58, è tutt’ora il quarto metaman di tutti i tempi dietro a Ohata, Campese e Habana. Le ultime due le segnerà all’Australia nel 2011, in due partite dai diversi significati. La prima è la finale per il terzo posto del Mondiale, la seconda è il classico test autunnale organizzato dai gallesi a dicembre. Il Mondiale 2011 mostra forse il Galles più bello degli ultimi anni, una squadra giovane e dal talento smisurato. Una squadra che sta cercando di fare a meno di Shane Williams, al passo d’addio. Warren Gatland, uno che per anni ha costruito i suoi successi con la Warrenball, variante ovale dell’evangelico “Bussate e vi sarà aperto”, ci proverà più volte a farlo tornare sui suoi passi, ma l’uomo ha deciso. Riuscirà in verità a farlo vestire di nuovo di rosso, ma la maglia è quella dei Lions nel Tour australiano del 2013, contro i Brumbies. Perderanno quell’incontro, ma Shane è trai migliori dei suoi, sembra abbia abbandonato l’Europa ovale l’altro ieri. Ed è emblematico il fatto che la maglia numero 11 con le Tre Piume se la prenderà poi George North, armadio a sei ante degli Scarlets, l’ala più pesante che il Galles abbia mai avuto, segno di un rugby fatto sempre più per i pesi massimi e sempre meno per chi, oltre a muscoli e centimetri, ha sempre cercato di arrivare ai cuori di tutti con fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. La mente, il genio, prima del braccio.
Shane se ne va a giocare in Giappone nel 2012, ma prima regala una ultima gioia ai suoi Ospreys, con i quali ha già vinto due titoli. In semifinale i gallesi fanno piangere il Munster, poi arrivano in finale contro il mostruoso Leinster di O’Driscoll e compagni, dato largamente per favorito. Solo che proprio Williams tira fuori dal cilindro gli ultimi due conigli, uno dei quali quasi allo scadere. Dan Biggar trasforma e firma il sorpasso, gli Ospreys sono ancora campioni.
Shane è ancora campione, nonostante abbia rischiato di salutare il rugby per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Nonostante abbia rischiato di salutare i suoi amati rimbalzi irregolari ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Ora è il rugby a salutarlo ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark, forse, con questi chiari di luna e questo tipo di rugby, non passerà più. Almeno per un po’.
Se volete una dritta il figlio di Shane ha già preso confidenza con la palla ovale.
La si butta lì eh, magari vi scappa una scommessina.
Nel caso ricordatevi degli amici.