Di Lorenzo Cirri
Un grande giocatore di rugby che è stato anche mio allenatore una volta ha detto: “Le squadre di rugby, dalla Serie A in giù, sono fatte di gente che di giorno lavora e la sera si allena. Operai dello sport. Non so se la classe operaia vada in paradiso. Io cerco di farla andare in meta.”
Questa frase oggi un po’ come uno di quei ritornelli scemi dei tormentoni estivi, che non ti puoi distrarre un attimo e ti rimbalza in testa e non c’è verso di farlo andare via.
Così, mentre il grigio panorama dell’Appennino scorre davanti al finestrino di questa che ormai per me è una casa mobile, penso.
Penso che per una ragazza non è davvero facile (ancora oggi) scegliere il rugby e che forse non lo è nemmeno per un allenatore, perchè in fin dei conti tra le tante cose che devi fare quando lavori con una squadra femminile c’è anche quella: allenare le ragazze (e credetemi non sempre è la cosa che viene prima delle altre).
Una squadra femminile è quasi sempre un microcosmo particolarissimo all’interno di una società e l’allenatore in questo sistema è spesso molto di più che un tecnico: formatore, dirigente, magazziniere, psicologo e talvolta (se ne ha le competenze) anche fisioterapista.
Tutto questo è naturalmente molto coinvolgente ma… Qualche volta l’allenatore si ricorda anche di essere un tecnico e quando lo fa non può fare a meno di porsi delle domande.
Ecco, questo è quello che oggi mi passa per la testa. Domande. Le domande, quando si parla di rugby in rosa sono sempre tante, dalle più semplici che riguardano le soluzioni di gioco (come faccio a mandarle in meta?), alle più complesse (come faccio a farle crescere? Sul campo e non solo) che si accompagnano agli infiniti perchè sulle differenze di gestione che “quasi” sempre riguardano il mondo del rugby in rosa.
Certo di risposte ognuno ha le sue, specialmente per quello che riguarda il gioco, ma sulla crescita del rugby femminile in Italia spesso ci si confronta ed ognuno ha le sue opinioni e le sue ricette. Questa è una cosa che mi piace molto. Mi fa sempre sentire parte di una grande famiglia e mi ricorda che in giro per l’Italia ci sono altri come me, con la stessa passione, gli stessi problemi e la stessa determinazione nel creare qualcosa. Qualcosa che in ogni modo e diversamente da altro, rimarrà sempre qualcosa di grande. Almeno dentro di me.
E’ innegabile che negli ultimi anni il numero delle giocatrici qui in Italia sia cresciuto molto, ma possiamo dire lo stesso per il livello del gioco? Si è vero, la nazionale ha fatto un incredibile balzo in avanti negli ultimi quattro anni, ma il nostro campionato? Onestamente molto meno. Le squadre nascono e muoiono, vanno e vengono, ma ancora nessuna delle squadre che sono nate o cresciute da dieci anni ad oggi rappresenta una vera alternativa al duopolio Treviso – Mira (ed anche li hanno i loro problemi).
Perchè? Di risposte ne ho sentite tante, cultura, risorse, tecnici poco preparati, ma non le condivido molto. Io sono uno dei quei tecnici, bravo o meno non lo so e credo che molto del processo di crescita dipenda dalle ragazze stesse. Il rugby è uno sport che chiede molto ed in tanti anni passati ad allenare le ragazze, di giocatrici che hanno scelto di lavorare per crescere, ne ho incontrate davvero poche. La componente principale del gioco per le ragazze rimane ancora il divertimento (è questo è un bene) ed il valore del gruppo, ma ci sono altre cose che devono essere sviluppate se vogliamo far crescere il valore assoluto del nostro rugby. Se pronuncio parole come palestra, alimentazione o abilità specifiche ci sono giocatrici che assumono comportamenti da gatto di fronte ad una pozza d’acqua. Per non parlare dell’approccio mentale che tante ragazze che si avvicinano al rugby hanno nei confronti dell’infortunio. Certo la voglia di mettersi alla prova è tanta, ma in percentuale sono tante le ragazze che non ci riescono. Per alcune il rugby chiede semplicemente troppo.
Tante volte io ho addirittura problemi a far lavorare le ragazze sul campo tutte assieme. Certo, lavoro e studio vengono prima di tutto, ma per costruire qualcosa, qualsiasi cosa, che sia un modello di gioco o semplicemente un gruppo coeso ci vuole tempo, pazienza e lavoro e se questo non lo facciamo tutti/e assieme, ogni squadra continuerà ad avere fondamenta fragili. Questo è forse il più complesso e delicato dei concetti che un bravo allenatore deve trasmettere alle sue ragazze. Ecco perchè, qualche volta penso sia più utile cominciare a concentrarsi sul “come” stando tutti/e assieme sul campo piuttosto che sui “perchè” da forum, che sono certamente utili ma non ti insegnano certo a passar bene il pallone.
Prato Centrale. Fine corsa del treno. Piove. Inizia un’altra giornata. Ore di scuola, compiti da correggere, articoli di scrivere, rugby ed in tutto questo ci sono le fila di una vita da tenere in equilibrio. Come? Certi giorni davvero non lo so.
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