Certe volte guardo il cielo. Lo scruto, ne carpisco tutti i movimenti, prendo quello che mi dà. Acqua sui vestiti, sole negli occhi, polvere ovunque.
A volte pure delle bastonate che ve le regalo.
Io, però, continuo a guardarlo. Fa da sfondo a tutto quello che meglio mi riesce.
No, non è sempre stato così. Cambia sempre, e cambiamo noi quaggiù. È denso di promesse quando sei giovane, quasi un nemico da sfidare quando le cose si mettono male e hai fretta di rimettere a posto le cose. Un amico a cui strizzare l’occhio quando la carriera volge al termine e vorresti blandirlo il più possibile per strappargli ancora qualche minuto.
Me lo ricordo, quand’ero in Argentina. Avevo vent’anni e sedevo tante volte in panchina. Fu un mondiale trionfale per noi, i Baby All Blacks. Perfino in finale riuscimmo a segnare 62 punti all’Australia di Mat Toomua, Jono Lance e altra gente che nel Super Rugby si fa riconoscere ogni settimana. Beh, diciamo la verità: quando a questi livelli ti puoi permettere il Julian Savea più forte di sempre parti già con un discreto vantaggio in saccoccia. Avevo vent’anni e sedevo tante volte in panchina. Certo, venticinque punti al piede li ho messi dentro anch’io, ma se il titolare all’apertura si chiama Tyler Bleyendaal, già predestinato un giorno alla maglia dei Crusaders e per di più capitano, beh, ci si arrangia con gli scampoli di cielo che rimangono. Nel mio piccolo mi possono bastare, per il momento, poi un giorno avrò le mie chance. Non lo se basteranno per arrivare vicino alla maglia numero 10 più bella e importante per un neozelandese, ma io ci proverò.
Continuo a far bene ad Otago, nel frattempo. Non siamo la squadra più forte, ma ci facciamo sentire. Risorgiamo dalla Championship in cui eravamo piombati, poi in un paio di stagioni arriviamo ai playoff. Sono il numero 10 titolare, sono fisicamente leggerino, ma tutti gli allenamenti su calci e piazzati cominciano a dare i loro frutti. Le franchigie del Super Rugby cominciano a mandare qualche osservatore. Alla fine la spuntano gli Highlanders, ma il campo lo vedo poco. Le altre aperture in rosa sono Colin Slade e Lima Sopoaga, due veri fenomeni.
Io, Hayden Parker, aspetto il mio turno.
Arriverà, lo so.
Non gioco poco, scendo in campo dieci volte e segno una trentina di punti, ma arriviamo penultimi. A fine stagione se ne va Slade, ma il titolare quasi inamovibile è Sopoaga, che molti danno tra i favoriti alla maglia degli All Blacks subito dopo la Coppa del Mondo del 2015. È forte, fortissimo, e quindi campo e pali li vedo poco, meno della passata stagione. Arriviamo sesti e usciamo ai playoff. La squadra è buona, cresce bene, nel 2015 siamo tra i favoriti per la vittoria finale, ma io mi distruggo un ginocchio quasi subito.
Una rabbia che non avete idea.
Vinciamo il titolo, ma salto tutta la stagione, poi mi faccio tre mesi tra Otago e Giappone a rivedere il campo. No, non è facile: vedere quei pali lì, fermi, se hai bisogno di conferme è difficile. Non è che si muovano loro, sei proprio tu quello che dà loro troppa importanza. Vita e morte, davanti a dei pali, sono concetti che è meglio lasciar perdere. Tanto, come diceva quel tale, in ogni caso non se ne uscirebbe mai vivi. Sono arbitri del tuo destino, fermi e ineluttabili come esso, sta a te tenerli fermi il più possibile.
In qualche modo torno quello di prima, ma Sopoaga è ancora lì. Gioco poco, anche perché nel frattempo è arrivato Marty Banks, che sta mettendo insieme una serie di partite incredibili.
Poi, a fine stagione, mi rompo ancora.
Sempre lo stesso ginocchio. A ventisette anni e con ancora qualche speranza non ancora fuggita del tutto è difficile rialzarsi. Mi rimetto a posto, ma forse è il caso di cambiare aria finché ho ancora un minimo di mercato. Mi cercano, tra gli altri, i Sunwolves, franchigia giapponese con un solo anno di vita e una dannata voglia di crescere. Per il posto da titolare me la vedrei con Yu Tamura, apertura della nazionale giapponese, pochi fronzoli e tanta sostanza. La lotta è aperta, però. La squadra è seguita direttamente dal coach della nazionale giapponese, Jamie Joseph, ed è composta da una bella dose di Brave Blossoms (i nazionali giapponesi), più una discreta partita di nozelandesi, isolani e sudafricani già reduci dal campionato giapponese. Mi guadagno subito il posto da titolare, ma è durissima far risultato. Il progetto è interessante, in futuro potrebbe portare risultati, ma non si può annullare in pochi mesi un gap generazionale con neozelandesi, australiani, argentini e sudafricani. Vinciamo due partite nel mio primo anno, tre nel secondo. Gioco e mi diverto, in più il ginocchio non sembra risentire degli sforzi. E, quando mi metto davanti ai pali, non tremo più.
Non so se sia lui – il cielo intendo – a sorridermi o i miei piedi a far andare tutto per il verso giusto, sta di fatto che ne metto dentro trentotto consecutivi. Poi, dopo un errore, ne inanello altri trentadue. Sotto vento, pioggia o sole che acceca. Segniamo addirittura 66 punti ai Reds. Nel 2019 va anche meglio, restiamo a contatto e vinciamo le prime partite in terra straniera. Poi, però, arriva la brutta notizia: dal 2021 i Sunwolves non giocheranno più nel Super Rugby. Molto probabilmente, a trentun anni, dovrò cercare un altro posto in cui prendere la mira.
Ancora Giappone, ancora Nuova Zelanda. O forse Europa.
Non lo so.
Certe volte guardo il cielo. Lo scruto, ne carpisco tutti i movimenti, prendo quello che mi dà. Acqua sui vestiti, sole negli occhi, polvere ovunque.
A volte pure delle bastonate che ve le regalo.
Cambia sempre, e cambiamo noi quaggiù. Tra Argentina, Otago e Giappone. È denso di promesse quando sei giovane, quasi un nemico da sfidare quando le cose si mettono male e hai fretta di rimettere a posto le cose. Un amico a cui strizzare l’occhio quando la carriera volge al termine e vorresti blandirlo il più possibile per strappargli ancora qualche minuto.
Io, però, continuo a guardarlo. Fa da sfondo a tutto quello che meglio mi riesce. Poi prendo la mira.