Io li ho visti, gli occhi dei piloni di Cardiff.

No, non doveva andare così.

Tutto si aspettavano, tranne di dover sentire aria di sconfitta nel bel mezzo della campagna bresciana. Pensavano di poter disporre a loro piacimento di un avversario di cilindrata diversa, forse.

Di sicuro non di dover avere a che fare con una partita ancora in bilico quando al termine manca veramente poco.

I piloni di Cardiff sono grossi, duri da spostare e ancora più duri a morire. Spingono come dannati, ma uno come Cittadini non lo puoi vincere così facilmente. Lorenzo è uno a cui, per tenere insieme tibia e perone, hanno avvitato un chiodo di dimensioni spropositate. È uno che non ha tremato a Murrayfield quando Clancy non puniva la prima linea scozzese.

Figuratevi se si fa spaventare dai primi che credono di fare la voce grossa a Calvisano.

Ma non c’è solo lui a tenere alto il vessillo bresciano. C’è Consoli, che gioca più con la cadetta in serie C che con la prima squadra, ma nessuno in realtà si rende conto della cosa. Guida la mischia come un veterano, è massacrato dai crampi ereditati da un livello che non gli appartiene, ma non molla un centimetro. C’è Vunisa, che non è più quello dei bei tempi, ma che con quelle mani sa inventarsi l’azione che ha portato i padroni di casa in meta. C’è Pescetto, che ha il piede di Re Mida, trasforma in oro qualsiasi cosa passi per quelle tomaie.

A dir la verità si fa fatica a trovare chi non sta rendendo al massimo, ognuno ha una sua storia da vendicare, un suo istante da gridare al mondo, una sconfitta da vendicare.

E davanti non è che ci sia una squadra qualunque.

Perché i Cardiff Blues non saranno più quelli che una decina di anni fa, ma al Peroni Stadium c’è un favorito obbligatorio. Me li ricordo quando scesero con la loro migliore formazione: Shanklin, Rhys Thomas, Molitika, Ben Blair, Jamie Roberts. Segnarono qualcosa come 120 punti tra andata e ritorno a gente come Ghiraldini, Purll, McLean, Fraser. No, nemmeno Calvisano è quello del 2008, non può esserlo. Troppe le vicissitudini accadute in Lombardia, troppi i cambiamenti dell’ovale azzurro, con l’avvento di Benetton, Aironi e Zebre.

Nessuno di quelli in campo, però, vuole veramente partire battuto.

Si gioca al limite, nessuno vuole veramente risparmiarsi: ogni raggruppamento è una guerra, gli ospiti sono fisicamente più pronti, ma devono faticare. Alla prima vera occasione, però, Jarrod Evans con un calcetto mette in difficoltà Van Zyl. Si avventa Morgan, l’estremo, che vola in mezzo ai pali. Evans arrotonda con la trasformazione e un calcio di punizione, 10 a 0. Sembra uno di quei soliti match di Challenge Cup in cui l’italiana di turno prova a tenere, ma appena si rende conto che ci si può far male scala una marcia e tenta di sopravvivere. Questa sensazione dura poco però, perché i padroni di casa si scrollano di dosso un po’ di paura e vanno a giocare nella metà campo gallese. Arriva un piazzato di Pescetto, poi il capolavoro: palla fuori per Vunisa, che attacca e assorbe due difensori. Riesce però a tirar fuori le mani e a liberare nello spazio Van Zyl. L’ex giocatore delle Zebre si invola, punta l’estremo e serve all’interno per De Santis, che deve solo correre.

Il Peroni Stadium, mai uscito realmente dal match, alza il volume.

In molti sanno benissimo che prima o poi i gallesi ingraneranno la marcia giusta e prenderanno il sopravvento, ma finché gira si godono il momento. La parità, infatti, dura solo quattro minuti: Cardiff allarga due volte il campo, nella seconda occasione manda in avanscoperta Seb Davies, che sarebbe una seconda linea, ma indossa la maglia numero 8. Davies, in campo aperto, non è arrestabile, 17 a 10.

Lì davanti, però, la lotta continua.

La mischia di Calvisano non trema di fronte ad un avversario più pesante e più abituato a battaglie con avversari di lignaggio più alto. Anzi. Brugnara e Cittadini davanti mettono ripetutamente in croce la prima linea avversaria, tanto che Keiron Assiratti, numero 3 gallese, è costretto al cartellino.

Si guardano, le prime linee gallesi. Non si aspettavano tutta quell’opposizione. Non erano partiti da Cardiff con l’idea di trovare qualcuno con quel tipo di spirto guerrier. E per un po’ non riescono a capirci granché.

Ma non è cosa confinata lì davanti. Nessuno aveva previsto una faticaccia del genere.

E se ti accorgi di aver sbagliato approccio non è mica così semplice rimettersi in carreggiata.

Anche perché lì davanti Calvisano fa sul serio. La mischia è a tratti devastante, mai si direbbe che quelli vestiti di giallo e nero siano di fatto dei semiprofessionisti. Non diresti mai che quel numero 7, Nardo Casolari, fino a qualche mese fa è stato in bilico tra vita e morte. E nemmeno che quel numero 4, Adam Wessels, se si esclude una stagione a San Donà di Piave, non avesse mai visto da vicino che la cayenna dei campionati minori sudafricani. No, sono tutti lì a spingere, a spostare anche solo di qualche secondo più in là il momento in cui l’acido lattico avrà la meglio. Sì, l’acido lattico, perché quelli lì mica li fermi così facilmente.

Pescetto calcia due volte per i pali, fa 16 a 17. Mancano dieci minuti alla fine.

I gallesi si guardano.

Io li ho visti, quegli occhi.

No, non doveva andare così.

Tutto si aspettavano quelli là, tranne di dover sentire aria di sconfitta nel bel mezzo della campagna bresciana. Pensavano di poter disporre a loro piacimento di un avversario di cilindrata diversa, forse.

Di sicuro non di dover avere a che fare con una partita ancora in bilico quando al termine manca veramente poco.

Poi però succede che il rugby è uno sport crudo, difficilmente ancorato al lieto fine.

Se sei il più forte in campo vinci.

Prima o poi i valori in campo vengono fuori, volenti o nolenti.

E se non hai dimestichezza con le alte sfere del rugby europeo, prima o poi le ali di Icaro cedono sotto i raggi del sole.

Basta un placcaggio lisciato, sono sufficienti due metri lasciati all’avversario, poi un allargamento.

Meta gallese in bandierina.

Crudo e semplice.

Frustrante come l’inarrestabile corsa obliqua di Jarrod Evans, che parte dalla sua metà campo e coglie nel pieno della stanchezza avversari che fino a cinque minuti prima gli avevano fatto capire fin troppo bene quanto dura fosse la pelle del Peroni Stadium. Poi un passaggio all’esterno e meta.

E poi un altro allargamento.

Tre mete in dieci minuti, lo scotto che si paga quando la lancetta del carburante scende pericolosamente sotto la soglia della lucidità.

Il caro prezzo pagato da chi ha osato chiedere troppo a gambe e anima.

La medicina che serve ai vincitori, ma pure ai vinti.

Che ritorneranno a sfidare sorte e avversari.

Oltre la soglia.

Più forti di prima.