“Coach, cosa voleva dirmi?”

“Se riesci avrei bisogno di pali più alti, please

“Più alti? Sicuro, coach?”

“Direi di sì, con quello lì che calcia non riesco mai a vedere dove finisce il pallone!”

Era dai tempi di Guglielmo il Conquistatore,forse, che un francese non metteva bocca in una questione inglese come solo il rugby sa essere. Inglese, inglese, non britannica. In altri tempi uno così, se sprovvisto di adeguato esercito alle spalle incaricato di sostenere la sua forte opinione, lo avrebbero preso per pazzo. Sapete qual è la cosa divertente? Lo ascoltano.

Ora, mentre vi immaginate l’addetto del Kingsholm Stadium di Gloucester presentarsi con una fornitura nuova di pali e dire “Coach, che dice, ce abbasteno?” con accento e cadenza alla Bombolo dei giorni migliori (scena improbabile ma abbastanza divertente, se ci fate caso), provate a pensare al significato dei pali di un campo da rugby. Danno profondità, sacralità al terreno di gioco. Incutono timore in chi tenta di sfidarli, promuovono la voglia di nuove sfide. Philippe Saint-André, ex leggenda del rugby transalpino, ha terminato da un paio di anni la sua carriera da giocatore. Ha deciso nel 1997, a 30 anni, che i suoi ultimi anni da giocatore li avrebbe spesi in Inghilterra. Gioca e allena fino al 1999, poi allena e basta. Nel 2001 decide di far mettere sotto contratto, tra gli altri, un suo connazionale. Gli è bastata una chiamata per accordarsi. Francesi e inglesi mai amati, già detto. Saint-André però tocca le corde giuste e indica alla dirigenza il mediano di apertura dell’Aurillac, appena retrocesso nella seconda serie francese. Non sono in pochi a storcere il naso, dopotutto il ragazzo ha ormai 25 anni e la Nazionale non l’ha vista praticamente mai, se si esclude qualche partenza dalla panchina con la selezione A. Oh, almeno Simon Mannix, numero 10 al passo d’addio, una presenza con gli All Blacks l’ha pur sempre messa a referto. Questo era titolare di una squadra che in Challenge Cup, coppa zeppa di squadre italiane, a fatica aveva vinto due partite e  aveva beccato quasi 80 punti dai London Irish in due partite.

No dai, non è il caso.

Piano però, perché forse in Inghilterra uno così serve.

Anche perché, dopo le prime due partite, forse tre, qualcuno comincia a chiedersi se il ragazzo non sia in verità un suddito della Regina travestito. Ha poco della classica apertura francese, del primo violino con gambe elettriche in grado di innescare danze di trequarti di stordente bellezza. Quel numero 10 lì è bello solido, fisicamente massiccio, molto pratico. Ringo Starr prestato alla mediana. Un giocatore perfetto per l’autunno-inverno britannico, da cingoli nel fango e poche sonate al chiaro di luna. Magari non perfetto in difesa, ma se il mio gioco è fatto di un sistema di tagliagole disseminati per tutto il campo, uno così me lo posso pure permettere. Se un inglese, dopo questa descrizione sommaria, non si fosse ancora invaghito di un numero 10 così, fategli vedere un suo calcio.

Tattico o per i punti, quello che volete.

Cassazione.

Con l’aggiunta di una traiettoria particolarmente alta e arcuata, quasi spaventosa a prima vista. Saint-André, vista la mole del calcio del suo numero 10, tira fuori il dialogo di cui all’inizio. E ora pensateci bene: un francese che chiede a degli inglesi, con la sola imposizione dei piedi, una modifica del loro campo da rugby. In altre epoche magari non sarebbero saltate teste, ma un minimo di spocchia inglese non avrebbe fatto fatica ad uscire allo scoperto.

E invece, a sorpresa, lo ascoltano.

Innanzitutto perché il fatto che l’arbitro capisca al volo se il calcio è dentro o fuori conviene anche a loro. in secondo luogo perché quel numero 10 proveniente da una squadra francese retrocessa, senza presenze con i Bleus, con capelli che piano piano stanno salutando che nemmeno i Cavalieri di Vittorio Veneto, ha piedi e cervello pari alla bocca di Virna Lisi: possono dire  tutto quello che vogliono.

Perché Ludovic Mercier, con i piedi, può dire e fare tutto quello che vuole.

Pure baciare palloni.

A Gloucester diventa ben presto uno degli idoli della tifoseria, lui ringrazia e ricambia: i Cherry & Whites arrivano terzi in campionato, l’anno successivo vincono a mani basse la regular season e vanno a giocarsi la finale contro i London Wasps. È una gran bella squadra, quella che Saint-André, salutato alla sua ultima panchina da un grosso tributo inglese, ha nel frattempo lasciato in mano a Nigel Melville: ci sono Sinbad, al secolo James Simpson-Daniel, uno dei più forti e sfortunati talenti d’Inghilterra. Un mostro sacro inglese come Phil Vickery, stranieri del calibro di Rodrigo Roncero, Boer e Hazell. Con una batteria di avanti del genere e con un finalizzatore come Sinbad uno come Mercier ha veramente in mano il cuore della squadra. I Cherry and Whites nel frattempo portano a casa la Powergen Cup (antico nome della Coppa Anglo-Gallese) in aprile. Contro il Northampton nel primo tempo il match è combattuto e molto equilibrato, la ripresa vede però Mercier e compagni cambiare passo e timbrare un perentorio 40 a 22. L’apertura segna 20 punti, frutto di 4 trasformazioni, tre punizioni e un drop. A giugno, nella finale per il titolo inglese, hanno tutto per ripetersi. Solo che contro i London Wasps sbagliano completamente partita, finisce 39 a 3 e tanti saluti al campionato. In Europa non va diversamente: fuori il primo anno in Challenge contro i Sale Sharks in semifinale. L’anno successivo sembra quello buono: in Heineken Cup nelle prime tre giornate battono Munster, Viadana e Perpignan. Perdono in Catalogna, campo difficile per tutti, ma poi regolano ancora gli italiani e si presentano all’ultima giornata con due punti su francesi e irlandesi. A Limerick si può anche perdere, basterebbe non sbracare. A Thomond Park, però, Ludovic e compagni finiscono  ancora dall’altra parte della storia: Munster deve vincere di 27 punti segnando quattro mete. Difficile, quasi impossibile, anche perché all’inizio Mercier risponde colpo su colpo, 8 a 6. Poi però gli inglesi spariscono dal campo, finisce 33 a 6. Passano Munster e Perpignan. Nel 2003 a Gloucester cominciano le grandi manovre, si vuole modernizzare l’ambiente. Si comincia col cambio del nome, da “Gloucester Rugby Football Club” a “Gloucester Rugby”. Non è che i tifosi apprezzino poi molto, a dire la verità. Se ne va anche Mercier. Torna in Francia, prima a Grenoble e poi a Pau. Sono le ultime due stagioni del Top 16, torneo che dal 2005 verrà ristretto a 14 squadre. Mercier in Francia fa il suo, in due stagioni colleziona una media di 10 punti a partita e dà una certa impronta alle sue squadre, ma la testa non è sgombra. Nel 2005, a sorpresa, torna a  Gloucester.

Certi amori non finiscono, almeno così dicono. Fanno solo dei grandi giri, poi ritornano.

Ma dicono pure che non può essere la stessa cosa.

No, non è questione di risultati, nel 2007 e nel 2008 Gloucester vince la regular season, non riesce a vincere nulla, ma nel complesso i risultati sono quelli che si confanno ad un club di alto rango. Non è questo. Mercier non è più la prima scelta. A contendergli un posto nella stanza dei bottoni infatti c’è Ryan Lamb, ventenne dal talento cristallino ma che deve ancora mangiare parecchie dosi di fish and chips prima di poter essere considerato un fenomeno. Ecco, Mercier nei piani della dirigenza servirebbe a questo, a fare da chioccia al ragazzino. Mercier per esperienza e per leadership sarebbe ancora avanti, però il più delle volte deve accomodarsi tra panchina e tribuna. È vero, Lamb è veramente un bel prospetto, ha tutto per sfondare, ma non riuscirà mai a essere abbastanza continuo e costante per sfondare. Mercier sarebbe bello che pronto per farlo rifiatare in caso di cali di forma o raffreddori. Peccato che a quel punto ci si affidi pure a Willie Walker, neozelandese già visto a Parma e che gli inglesi pescano dal campionato giapponese. Gli spazi si restringono sempre di più, Ludovic chiede di risolvere il contratto. Ad oggi è ancora il giocatore più prolifico di sempre che abbia mai giocato a Gloucester. Mancherà, e parecchio, ma questa è un’altra storia. Si guarda intorno, è ottobre, non un gran momento per cambiare squadra:  la maggior parte delle squadre europee, a stagione appena iniziata, è già a posto con la rosa.

Eh, ma c’è chi ha bisogno.

Lo cerca il Petrarca, in Italia. A Padova gioca da una stagione Nicky Little, apertura figiana di discreta fama europea. È uno dei cervelli della sua Nazionale alla Coppa del Mondo del 2007, ma si sbrana un ginocchio negli ultimi secondi della clamorosa vittoria contro il Galles. Dietro al figiano ci sarebbero un paio di giovani niente male, a Padova il settore giovanile è cosa seria, ma un personaggio in grado di indicare la strada serve come il pane. Tra giocatore e squadra c’è l’accordo, Mercier si trasferisce all’ombra del Santo. Ecco, se un giocatore del genere faceva la differenza ad alto livello nel campionato inglese pensate cosa possa fare in quello italiano. Insieme a Marius Goosen e a Brendan Williams è nettamente lo straniero più determinante del torneo. Al Petrarca rimane per tre anni, porta i tuttineri a giocarsi una clamorosa qualificazione ai quarti di Challenge Cup battendo praticamente da solo il Bourgoin di Morgan Parra (con tanto di drop da 40 e passa metri al Pierre-Rajon), poi risponde alla chiamata delle Zebre in Celtic League. A Viadana rimane però solamente lo spazio di qualche mese, 34 anni non sono pochi a quel livello e si fanno sentire tutti. Torna a Padova e diventa decisivo per la conquista dello scudetto in quel di Rovigo. Il “Battaglini” è ormai da decenni nella leggenda per via dei suoi pali, considerati i più alti d’Europa. Capita di sentirsi smarriti, quando ci si passa vicino. Provate a pensare al significato dei pali di un campo da rugby. Danno profondità, sacralità al terreno di gioco. Incutono timore in chi tenta di sfidarli, promuovono la voglia di nuove sfide.

Non è un caso che però, il primo a non perdersi, là sotto, in un caldo pomeriggio del 2011, sia stato un francese già paladino d’Inghilterra.

D’Inghilterra, sì. Dicono che l’ultimo dei suoi conterranei a conquistarla fosse stato Guglielmo il Conquistatore.

Lui si è limitato, se così si può dire, a mettere le mani in uno sport da loro inventato.

I piedi, meglio.

A convincerli che quei pali, come certi limiti, ogni tanto si possono alzare di un bel po’.

E a farsi mancare, a Gloucester così come a Padova, ancora un bel po’.

Merci, Ludovic.