A volte penso che avrei tanto desiderato un’adolescenza come tante altre. Scuola, amici, qualche cotta passeggera con cui vedere la parte bella del mondo. Uno sport, qualche libro sul comodino che comunque mai sarei riuscito ad aprire, un motorino. Toh, perfino qualche cretino a prendermi per il culo per la mia pelle non propriamente di pesca. Sì, forse avrei voluto vivere così, tra giorni di invincibilità e lunghissimi momenti di paranoia, come tutti gli altri.

E per un po’, a dire il vero, è andata così.

Poi il rugby ha cominciato a venirmi particolarmente bene. Tutto suo padre, dicevano, visto che papà da queste parti era una celebrità. Seconda o terza linea, convocato pure nel Divisional XV, una sorta di selezione dei migliori giocatori che non giocavano nel massimo campionato. Quando hanno saputo però che il figlio di Stu sarebbe stato un mediano d’apertura lo hanno pure preso un po’ per il culo. A sedici anni sono pronto per il debutto in una  selezione nazionale scolastica. Non male, visto che sono nato in Nuova Zelanda e che qui il rugby non è proprio l’ultimo sport della lista. Non riesco a giocare però, mi blocca la tubercolosi, mi tocca rinviare il sogno. Guarisco senza grossi problemi e ritorno alla grande. Nel 2008 entro nella High Performance Player’s Course at the International Rugby Academy NZ, la più importante accademia ovale del mondo. I miei allenatori e maestri per qualche mese sono Grant Fox e Jeff Wilson. Se non li conoscete quella è la porta, grazie. Nel frattempo continuo a giocare a Manawatu, la selezione della mia regione. Dicono che sia solo un passaggio intermedio, che presto cambierò marcia e diventerò qualcuno. Che una velocità di pensiero del genere nelle categorie inferiori è sprecata. Che sono piccolino, ma che il mio passo e il mio continuo attaccare la linea non siano cose che debbano rimanere riservate a quel mondo di buoni giocatori e niente più. Devono averlo notato pure a Wellington, perché gli Hurricanes mi vorrebbero nella loro seconda squadra.

Un giorno però, mentre mi sto facendo la doccia, sento qualcosa all’altezza del testicolo sinistro. Una specie di bitorzolo, una massa. Il mio dottore, dopo qualche visita, mi dice che non è niente, che probabilmente è un lipoma o poco più. Ai ragazzi, ai compagni di squadra non dico nulla, che non è il caso. Il dottore ha già detto di non preoccuparmi, a posto così. il problema è che quella massa, qualche settimana dopo, era ancora lì. E sembrava pure più estesa. Decido di cambiare dottore. Mi fa fare tutti gli esami del caso, il responso è una pugnalata: tumore al testicolo. Le metastasi hanno raggiunto i polmoni. Bisogna asportare la parte colpita e cominciare subito la chemioterapia. No, non è giusto. A diciannove anni i tumori dovrebbero essere banditi, vietati da qualche corte, da qualche tribunale. Non avevo ancora cominciato a vivere e già rischiavo di dover salutare tutti. Cinque giorni dopo la diagnosi giocai la mia prima e ultima partita della stagione. Contro Auckland, mi sembra. Non avevo ancora detto nulla ai ragazzi della squadra, mi limitai solamente a dire che per quell’anno non avrei più potuto essere dei loro. “Sono malato”, dissi. Non aggiunsi altro.

In fondo non era giusto che il mio fardello, quella cosa che delimitava me e i miei giorni, dovesse posarsi sulle spalle di altri. Non così, almeno. Lo vennero comunque a sapere, un diciannovenne col cancro non è cosa che entra da un orecchio ed esce dall’altro. Non mi hanno mai lasciato solo. Poi cominciarono le terapie, l’operazione, tre cicli di tre settimane, sei giorni su sette all’ospedale. Capelli che cadono, fisico che si rattrappisce e indebolisce.  Ma che non molla un secondo. Oh, sono pur sempre il figlio di una terza linea. I controlli non finiscono mai, ma il tumore regredisce e mi permette di tornare a vivere. Qualche tempo dopo mi contatta Dave Rennie, l’allenatore della nazionale under 20. Mi vuole al suo camp a fine novembre. Punta su di me per il mondiale del 2009 e mi vuole a quel raduno. Gli spiegai che ero debilitato e che avrei potuto fare ben poco in quei giorni, ma lui mi diede carta bianca.

Vieni e fai quello che riesci.

Ci andai, ci mancherebbe altro. Recuperai tutte le mie forze e tornai a giocare nel 2009. Rennie mi convocò, ma qualche giorno prima del debutto mi faccio male al ginocchio. Con una adolescenza normale sulle spalle, forse, tutto questo non sarebbe successo. Ma forse non ero fatto per essere un adolescente normale, e allora non c’erano scuse, bisognava recuperare. Quel mondiale lo vincemmo alla grande. Eravamo uno squadrone, vinco il premio destinato al miglior giocatore del torneo, anche se quello più forte tra noi, forse, da quel giorno non si è più ripreso. Zac Guildford, a cui muore il padre in tribuna qualche istante dopo la finale. Certe cose dovrebbero essere bandite dalla vita, ve l’ho già detto.

Nel 2010 riesco finalmente a debuttare con gli Hurricanes. Gioco bene, scalo gradualmente le gerarchie della squadra. Segno i primi punti nel secondo match, la prima meta ad aprile tenendo in panchina Willie Ripia e prendendomi la responsabilità dei calci, cosa che mai avrei pensato di ottenere. Non così in fretta, almeno. No, i pali non sono mai stati la specialità della casa. Lo sono diventati col tempo e con la pazienza di chi mi ha aspettato. A giugno ricevo la convocazione per i test match e debutto con gli All Blacks. All’epoca i controlli all’ospedale li facevo ancora e già qualcuno aveva pensato a me come sicura futura maglia numero 10 della Nazionale.

No, non andrà così.

Non per molto, almeno.

Non prendetemi per matto. Puntavo tutto sulla Coppa del Mondo 2015, a dire la verità, e già mi trovavo catapultato a questi livelli. Con la non remotissima possibilità di giocare una Coppa del Mondo a casa mia. Riesco ad accumulare qualche cap, ma per la Coppa del Mondo la seconda apertura è Colin Slade, autore di un paio di stagioni mostruose. Va bene così, anche se avrei potuto giocarmi meglio gli spazi concessi da quel fenomeno assoluto. Dan Carter, intendo. Il Mondiale me lo guardo da casa, ma Graham Henry mi chiama dopo un paio di settimane: Dan si è infortunato, per lui il torneo è finito, tocca a te. Arrivo subito, e poco dopo si rompe pure Colin Slade. Gioco i quarti da sostituto e semifinale e finalissima da titolare. Contro la Francia abbiamo serie possibilità di portare a casa un titolo che manca da ventiquattro anni. Partiamo forte, poi resto sotto in un raggruppamento e mi salta il ginocchio. Al mio posto entra Stephen Donald, minacciato di morte dopo una Bledisloe Cup persa e che il giorno in cui Henry lo chiamò stava pescando con gli amici.

Discreta come storia, non trovate?

Quel mondiale lo vinciamo e ci togliamo un peso che nemmeno potete immaginare, se non siete nati a queste latitudini. A fine anno passo ai Chiefs, con i quali vinco il titolo nel 2013 e nel 2014. Il futuro in nero è mio, dicono tutti.

Dan Carter, però, continua a fare il fenomeno.

E poi spunta Beauden Barrett.

Dura la vita di un’apertura neozelandese, vi porto tutti i testimoni che volete. Gioco il mio ultimo test con gli All Blacks a luglio del 2017 contro i Lions. È la partita che passerà alla storia come il primo pareggio tra le due selezioni da più di un secolo a questa parte. Poi vado a provare nuovi stimoli altrove. Mi vogliono in Francia, a Montpellier. Ho ventotto anni ed è giusto così, anche se in molti mi avrebbero voluto ancora in Nuova Zelanda.

Qualche volta c’ho pensato: forse, se avessi avuto un’adolescenza normale, me ne sarei rimasto da quelle parti. Scuola, amici, qualche cotta passeggera con cui vedere la parte bella del mondo. Uno sport, qualche libro sul comodino che mai sarei riuscito ad aprire, un motorino. Qualche cretino a darsi arie a cui mai ha potuto aspirare. Un padre preso per il culo perché, oltre a me, pure mio fratello Stewart è diventato un discreto mediano d’apertura. Una vita normale, da ragazzino che si sente invincibile e che avrebbe fatto di tutto per rimanerlo.

Forse.

Ma forse, senza tutto questo, non sarei diventato l’Aaron Cruden che ha voglia di sfidarsi tutti i giorni.

E allora può pure andare bene così.