No, non mi avrete mai. Mi avete catturato, deportato, internato. Ma non mi avrete mai. Il mio corpo, magari, un giorno atletico e statuario, ma non certo la mia anima, non certo il mio volere. Ci avete provato in tutti i modi: ore massacranti di lavoro, cibo scarso quando c’era, punizioni inenarrabili. Avete provato a dividermi dal resto, a farmi pensare che il mio nemico fosse il mio vicino, quello che sta come o peggio di me. No ragazzi, non funziona così.
Non con me, almeno. Non più.
Si erano stupiti, quando mi presero al roccolo di Ligurno, detto anche roccolo Gasparotto. Ironia della sorte, mi hanno preso proprio dove in molti si posizionavano, armati di rete, a cacciare gli uccelli migratori. Quelli già assaporavano l’anelito di libertà e venivano imprigionati così, a tradimento. Non so se fummo traditi anche noi, ma rastrellarono la zona e ci presero. Si erano stupiti, dicevo, perché non si aspettavano di vedermi da quelle parti. Ero considerato uno dei loro, in fin dei conti: Gioventù Italiana del Littorio, anno di militare, perfino due presenze con la Nazionale Goliardica di rugby, che poi era la Nazionale Universitaria. Due partite in Ungheria e Romania, due maglie con una grossa M bianca su fondo nero. Io pensavo a giocare, nient’altro. Il rugby era qualcosa di intimo, qualcosa che rimaneva addosso anche quando toglievo quella grottesca maglia. Era ciò che mi teneva libero, in un mondo di esclusione ed emarginazione. Era un mondo che mi ero costruito, un mondo in cui ero parte di una squadra per la quale avrei dato tutto.
Ma loro non potevano capire.
In fin dei conti ero uno di loro, secondo loro. Ma negli anni Trenta, se volevi studiare o costruirti uno straccio di futuro, non c’erano altre vie. Lo sapeva benissimo mio padre, fortemente antifascista, ma che doveva pur dar di che vivere alla sua famiglia. E lo sapevo benissimo io, che mi ero rifiutato più volte di fare il balilla in piazza, ritrovandomi spesso per punizione tra quattro mura. Ma se volevo avere un futuro la scelta, a malincuore, era una e una soltanto.
Poi arrivò l’8 di settembre e rinnegai tutto: le M sul petto, gli anni al GIL di Bergamo, il periodo da militare in servizio. Decisi di andare in montagna. Riuscii a farmi trasferire da Reggio Emilia a Bergamo, poi salii a Zambla. Mi misero al comando di una formazione partigiana, mi occupavo soprattutto dell’approvvigionamento di armi. Venni a sapere che ci sarebbe stato un rastrellamento imminente e mi mossi in prima persona per avvertire gli altri. Tutti devono sapere se si è in pericolo, siamo una squadra. Se un compagno è in difficoltà lo si aiuta. Sostegno, sempre e comunque. Che è poi la base del rugby. Purtroppo mi trovarono e finii in carcere. Prima a San Vittore, poi a Bolzano. Credevano fosse facile estorcermi informazioni. Avranno pensato che uno con quel passato fosse finito lassù per una semplice sbandata. Una sbandata da punire severamente, ma che prima avrebbe potuto esser loro molto utile. Non tradii, non risposi. Mi cercarono l’anima a forza di botte, ma non ebbero mai la forza di strapparmela di dosso. Mi ricacciarono dentro.
Poi qui, a Dachau.
Numero di matricola 113154. “Schutz”, prigioniero politico.
Il cielo qui è grigio anche quando c’è il sole.
Finisco in una capanna con altri italiani e qualche polacco. La maggior parte di loro sono devastati da malattie, fame e botte. Uno dei polacchi muore di tifo, i tedeschi mettono in palio una razione di cibo in più per chi avesse trasportato il cadavere. Lo dicono in tedesco, che capisco e traduco. Si offrono in due, uno di loro mi ringrazia. Non è aiuto, è sostegno. In qualche modo ci organizziamo, finisco per pulire le marmitte e per lavare i bagni. I tedeschi non tengono particolarmente alla nostra salute, ma alla loro sì, e allora il tifo va prevenuto. Poi se lo becchiamo noi, pazienza.
È dura alzarsi la mattina qui dentro. È ancora più dura sopravvivere alle violenze, e non sto parlando di quelle fisiche. È uno svuotamento continuo di anime, di forze, di stati d’animo. Si va avanti per inerzia, a volte, perché se ti fermi è finita per davvero.
Qui dentro è un continuo dividere. I prigionieri vanno messi uno contro l’altro, separati il più possibile. Ognuno dovrebbe, secondo loro, affrontare l’incedere dei giorni nella perfetta solitudine, con tutti i danni che la solitudine in questi contesti può fare. Il sostegno che ho imparato là fuori, su campi di erba, tra pali, bandierine e palla ovale, un po’ mi rinfranca. Spero rinfranchi anche chi è qui vicino a me.
No, non mi avrete mai. Mi avete catturato, deportato, internato. Ma non mi avrete mai. Il mio corpo, magari, un giorno atletico e statuario, ma non certo la mia anima, non certo il mio volere. Ci avete provato in tutti i modi: ore massacranti di lavoro, cibo scarso quando c’era, punizioni inenarrabili. Avete provato a dividermi dal resto, a farmi pensare che il mio nemico fosse il mio vicino, quello che sta come o peggio di me. No ragazzi, non funziona così. Non con me, almeno. Non più.
E un giorno uscirò di qui. Ammaccato, debilitato, ma vivo. Ne sono sicuro. Non tanto per parlare di quel che è successo, quanto di quel che bisogna fare per uscirne. Di quanto l’essere vicini, l’essere insieme, a volte riesca a mettere una pezza su ferite e dolori. Di quanto stare in squadra aiuti ad uscire dalle più remote prigionie dell’animo. Che quello che ti rimane sulla pelle, tatuaggi di matricole, cicatrici ed ematomi, resterà lì a ricordare che in qualche modo ne siamo usciti.
Un giorno uscirò di qui e giocherò a rugby di nuovo. E se non potrò, visto che mi hanno rubato gli anni migliori, lo insegnerò ad altri ragazzi. Più giovani, più aitanti, più fortunati di me nel vivere in un mondo senza guerre che ti prendono e ti rivoltano come un calzino. Un mondo in cui il massimo della guerra possibile saranno una mischia chiusa e un raggruppamento a terra. Senza campi di concentramento, senza matricole stampigliate sul braccio a ricordarti che per una breve parentesi siamo stati numeri e non persone.
No, cielo di Dachau, non mi avrai mai. E su di te splenderà il sole.
Parola di Aldo Battagion, matricola 113154.