Vlad Iordachescu, nazionalità rumena.

Professione arbitro di rugby.

Pure  di discreto livello, con presenze in Challenge Cup e nei campionati europei minori.

Anche ai mondiali under 20.

È lui l’arbitro del nostro ultimo incontro, quello di Bruxelles.

Per il momento, almeno.

Perché, come prevedibile, il secondo posto sarà cosa tra noi e la Romania. Poi lo cambieranno, com’è giusto che sia.

La Georgia non consideratela nemmeno, e non solo perché è già qualificata alla prossima Coppa del Mondo. No, troppo più forte, altra categoria. È l’unica squadra in grado, forse, di fronteggiare le sei del Sei Nazioni senza uscirne con le ossa particolarmente rotte. Lasciate perdere quelli che vi dicono che l’Italia è scarsa. È scarsa per loro, per quelli che il rugby se lo portano a spasso da un paio di secoli.

Mica per noi.

Noi e la Romania, la Romania e noi. Russia permettendo. Non è facile. Anche se, a dirla tutta, i romeni non sono più la nazionale schiacciasassi di un tempo. Sono grossi, è vero, ma lenti. Hanno equiparato due o tre tongani e li hanno piazzati là dietro, tra i centri e alle ali. Ma restano lenti, prevedibili.

O forse siamo cresciuti noi.

Di sicuro siamo un’altra cosa da quando è cessato l’embargo verso i giocatori dei campionati francesi. Giocatori fortissimi a cui spesso abbiamo rinunciato, persone di lontani natali iberici che ogni volta che hanno indossato la maglia del Quince del León hanno dato muscoli, ossa e fiato in onore del ricordo di nonni e padri. Gente che dà tutto in campo per i colori che indossa non merita di essere esclusa a priori, così, per una questione di accenti e rotacismi. Certo, per carità, se vuoi crescere un movimento senza stampelle non è il massimo della vita, ma non è bellissimo nemmeno pareggiare con la Germania. E nemmeno prendere 50 punti in Russia. Cose già capitate eh.

Al debutto battiamo proprio i russi a casa loro. Soffrendo, con un paio di decisioni arbitrali molto discusse, ma portiamo a casa quattro punti fondamentali per rimanere aggrappati al sogno mondiale.

Poi, a Madrid, attendiamo proprio la Romania.

Mai vista così tanta gente alla Complutense per una partita di rugby.

In spogliatoio ci siamo detti di azzannarli subito, vada come vada. Va a finire che segniamo due mete nei primi dieci minuti. Poi ci pensa Brad Linklater, un neozelandese di Otago. Fortissimo, un piede da cecchino e una corsa rotta che non vedevamo dai tempi di Ripol e Sempere. Arrivato a pochi passi dai Blues, quelli del Super Rugby, si è arreso ad una concorrenza sovrumana. Lo aveva contattato il Reggio Emilia, squadra del campionato italiano, ma un suo vecchio allenatore gli disse che in Spagna c’era bisogno di un estremo.

È qui che ha conosciuto Maria, è qui che diventerà padre. Questione di settimane. Ci pensa lui, questione di minuti, butta dentro un calcio dopo l’altro. Ci pensano lui e una difesa furiosa, coi romeni che finiscono presto per tirarsi la palla in faccia e per non capirci più nulla. Mamma che goduria, mamma quanta festa abbiamo fatto.

Quella domenica ci dicemmo tutti che il più era fatto, che le due tappe più dure del torneo erano state vinte, che ora era tutta discesa. Lo dicevamo forte e chiaro. Noi spagnoli non siamo mai stati scaramantici.

C’era qualcosa, però, che non tornava fino in fondo. Non lo so, ce l’avete presente quell’ultimo goccio di birra che, mentre bevete, vi scappa sulla camicia? O, meglio ancora, quella goccia di cioccolato che dai churros cade dritta su quei cinque centimetri quadrati di pantaloni che mai avreste pensato di sporcare?

Ecco, quella sensazione lì. Ma coi pantaloni lindi e la camicia asciutta. E senza cioccolata a portata di mano.

Una sensazione strana.

La sconfitta a Tbilisi non intaccò minimamente le nostre speranze, anzi. Schierammo molti giocatori che fino ad allora avevano giocato meno, facemmo rifiatare i titolari, ma tenemmo in scacco i Lelos per quasi un’ora. Con la Germania fu una passerella. No, quella non è la vera Germania, mancano tutti i giocatori dell’Heidelberg, la squadra di Hans Peter Wild, patron dello Stade Français. Wild e la Federazione sono ai ferri corti, i giocatori della sua squadra non vanno in Nazionale. Segniamo più di ottanta punti ad una squadra mal raffazzonata, ma li mettiamo insieme davanti a Re Felipe. Non credo che un re di Spagna avesse mai presenziato ad una partita di rugby prima di quel pomeriggio.

Altra festa, più contenuta.

Poi la partenza per il Belgio.

Non è una gran squadra, quella belga. Per carità, ha segnato più di sessanta punti alla Germania, ma altrettanti ne ha presi dalla Romania. L’anno scorso vincemmo trenta a zero in casa, ma non è poi questo a spaventarci più di tanto. Niente ci spaventa, a dir la verità.

A parte quel nome.

Vlad Iordachescu, nazionalità rumena.

Professione arbitro di rugby.

Pure  di discreto livello, con presenze in Challenge Cup e nei campionati europei minori.

Anche ai mondiali under 20.

È ancora lui l’arbitro del nostro ultimo incontro, quello di Bruxelles.

Qui qualcosa non torna.

Da settimane la Federazione ha fatto presente la cosa a Rugby Europe, massimo organo deputato a dirimere tali questioni. Zero carbonella. Senza alzare troppo i toni, il rugby ci ha insegnato a non partire prevenuti in questi casi.

No, Rugby Europe non si espone.

Il presidente non rilascia dichiarazioni.

Qualcuno fa notare che pure il presidente è della stessa nazionalità di Iordachescu, ma preferiamo pensare alla partita.

I belgi sono generosi, hanno qualche punta di diamante che gioca nei campionati minori francesi, ma non fanno paura. No dai, quei tre punti sono frutto di un loro sforzo che pagheranno nel finale. Sei punti, meno di una meta.

Diventeranno dodici a fine primo tempo, noi non ne mettiamo uno.

Il Belgio sta facendo la sua partita: sono pesanti in mischia, giocano chiusi, sono ordinati in difesa.

Hanno pure un buon calciatore.

Però quei calci sono strani.

Almeno in un paio di occasioni è sembrato che a Iordachescu premesse particolarmente fischiare. Cioè, non so spiegarlo, ma è come se certe mischie durassero meno del previsto. O come se certe touche fossero storte solamente in certe zone del campo. O, forse, solamente quando a lanciarle eravamo noi.

Negli spogliatoi il ct ci invita alla calma. Ci dice che il Belgio non può tenere quei ritmi per altri quaranta minuti, che dovremo essere bravi a portar pazienza e ad aspettare il nostro momento.

Ma non siamo calmi.

Il cioccolato dei churros ha macchiato i pantaloni puliti.

Il ct ha ragione, il Belgio è calato di brutto. Non corrono più come prima, in difesa non sono più così irreprensibili, la mischia comincia a perdere colpi.

Ma ogni volta che tocchiamo il pallone sentiamo fischiare.

Tra gli spalti c’è un po’ di imbarazzo. I tifosi di casa forse hanno capito che quella non è una partita di rugby come le altre. Vedono i loro giocatori commettere falli che in altri sabati sarebbero valsi dieci minuti seduti in un angolino, vedono una squadra che sta perdendo la calma minuto dopo minuto, fischio dopo fischio, pallone dopo pallone. L’apoteosi la si raggiunge quando i belgi non tallonano un pallone in mischia e fiutiamo la rubata. Li ariamo di brutto, il loro pilone sinistro ci affossa.

Fischio, punizione per il Belgio.

Il loro cecchino ne mette un altro, mancano dieci minuti alla fine.

In corpo abbiamo più rabbia che anima e in qualche modo arriviamo nei loro 22. Touche, la portiamo a casa e li spingiamo dentro l’area di meta, poi andiamo a terra. Iordachescu arriva e si guarda in giro. Il pallone è lì a terra,nelle nostre mani. Lui però si guarda in giro, abbozza uno sguardo verso il pallone, poi concede la meta. Sembrava stesse pensando a quale potesse essere il minimo motivo per annullare la segnatura.

Quindici a sette, manca sempre meno.

Risaliamo ancora il campo, i belgi ci affossano ancora, è punizione per noi. Arrotondiamo con tre punti, arriviamo sotto break. I belgi ci ricalciano il pallone, lo prende Rouet, il nostro numero nove. Incespica, evita un tentativo di placcaggio, va a terra, si rialza e riparte.

Iordachescu però ha fischiato. Tenuto a terra.

Ironia della sorte, il calcio più corretto e ineccepibile che abbia concesso loro negli ottanta minuti.

Diciotto a dieci, fine dei giochi.

Qualcuno dei nostri insegue l’arbitro per tutto il campo. Non si fa, non è questo il rugby che ci hanno insegnato, ma la ragione se n’è andata da un bel po’, forse è in giro per Bruxelles. Di sicuro non lì sul prato verde. Iordachescu per sua fortuna trova un cancelletto aperto vicino agli spogliatoi, cancelletto che si chiude al suo passaggio.

Fioccheranno squalifiche parecchio pesanti, talmente lunghe che due club francesi licenziarono due dei nostri. Piangemmo in tanti, nello spogliatoio: in tanti volevamo terminare la carriera con un Mondiale che la Spagna non vedeva da vent’anni. Qualcuno, come l’altro neozelandese equiparato Dan Snee, aveva lasciato temporaneamente il suo posto di lavoro in Nuova Zelanda per provare l’ebbrezza di una Coppa del Mondo.

World Rugby, acquisite le immagini della partita, chiese a Rugby Europe di ripetere la partita.

Obiezione respinta, ci si gioca tutto con Portogallo e Samoa.

Anzi no.

Veniamo estromessi dalla corsa alla Coppa del Mondo, in quanto avremmo fatto giocare due atleti non naturalizzabili, Belie e Fuster. Come noi pure Romania e Belgio.

I nostri manco lo sapevano di essere fuorilegge, la Federazione Francese non aveva mai notificato nulla di sbagliato.

Obiezione respinta, di nuovo.

Fuori. Ci si rivede – forse – fra quattro anni.

Quattro anni in cui ricostruire, modellare nuovi schemi, giocare e rigiocare contro Romania, Georgia, Russia e le altre.

Quattro anni in cui riconquistare qualcosa che altri sono riusciti a toglierci.

Quattro anni in cui prendere confidenza con lo smacchiatore.

Consapevoli che però, certe macchie, tue o regalate da altri, non vanno via nemmeno se le paghi.

E non è detto che tutti credano sia cioccolato.