Vi è mai capitato di trovarvi al posto sbagliato nel momento più sbagliato che potete immaginare? E vi è mai capitato, in quel frangente, di fare l’ultima cosa che vi potesse venire in mente di fare? Se la vostra risposta è no, beh, beati voi. Se la risposta è un sì laconico, bello triste, quasi in tono minore, beh, vi siete appena guadagnati un compagno di bevute. Piacere, Matthew Dunning. Matt, chiamatemi Matt.

Sono nato nel freddo di Calgary una quarantina di anni fa, ma sono australiano a tutti gli effetti: genitori australiani, casa e college a Sidney. Non mi è mai mancato nulla: una bella famiglia, un tenore di vita dignitoso, una discreta predisposizione per i giochi di squadra.

Rugby, soprattutto.

Ho sempre inseguito un pallone ovale, nella mia vita. Madre Natura non mi ha dato fibre buone per la corsa. Non quella veloce, almeno. O meglio, forse il sottoscritto, quelle fibre, non le ha allenate poi così bene. Sta di fatto che ben presto i miei allenatori hanno cominciato a mettermi in prima linea, che nel rugby significa essere un pilone o un tallonatore. Accendete la prima, nel mio caso. Lo stesso destino capita pure a Casey, mio fratello, di due anni più piccolo. Pilone anche lui. Non è male, ma sono più forte io. Lui, ad un certo punto, decide di rappresentare il Canada. Giusto così, se le regole lo permettono che lo faccia pure, non è che perda un fratello. Guadagno un avversario, semmai. Alla Grammar School e all’Università si rendono conto del mio potenziale, nel 2000 mi prende l’Eastwood, che disputa il massimo campionato australiano e che ha appena vinto la Shute Shield Cup. Non riusciamo a ripeterci, ma credo di aver fatto la mia parte, se è vero che mi contatta il team manager dei Waratahs.

Non so se rendo l’idea, mi chiama la franchigia australiana di Sidney, quella di casa mia. Mi vogliono. Sono al settimo cielo, ma sono consapevole che un posto, da quelle parti, mica te lo regalano. Sudo tantissimo, mi faccio un mazzo gigantesco, ma nel 2001 sono nella band. Non siamo la squadra più forte, i favoriti su tutti sono i Crusaders di Andrew Mehrtens e i Brumbies. Noi arriviamo ottavi nella regular season, niente di che, ma cresciamo. Abbiamo uno dei calciatori più letali e precisi della lega, Matt Burke. David Lyons, che è un grandissimo numero 8. Un bel mediano di mischia come Chris Whittaker e tre signori trequarti come Mat Rogers, Morgan Turinui e Scott Staniforth. Nel 2002 facciamo una grande regular season, battiamo finalmente i Brumbies e arriviamo secondi. Certo, i Crusaders sono inarrivabili, e un po’ ci brucia il fatto che contro di noi segnino 96 punti, ma vuoi mettere arrivare in finale?

Vuoi metterli sfidare in una unica gara secca, dove contano solo 80 minuti di massimo sforzo?

Certo che ce la possiamo fare.

Il guaio è che i Brumbies, in semifinale, la pensano esattamente come noi. Ci rifilano 51 punti, torniamo a casa con le pive nel sacco. Ci riproviamo nel 2003, che non è una annata qualsiasi: è l’anno della Coppa del Mondo. Che, a sua volta, non è una Coppa del Mondo qualsiasi: la organizziamo noi, qui, in Australia. Dal Rugby League arriva uno dei giocatori più forti e devastanti con i quali abbia mai giocato, Lote Tuqiri. È qui perché Eddie Jones lo ha già visto titolare inamovibile della sua Australia che verrà, quella che a novembre vorrebbe bissare il titolo del 1999. Non c’è dubbio. Perdiamo subito contro i Blues, squadra con un talento offensivo spropositato (Joe Rokocoko, Carlos Spencer, Doug Howlett tra gli altri vi bastano?), poi ci rifacciamo in Sudafrica. Non hanno grandi squadre da quelle parti, quest’anno. Il problema è che sul più bello ci addormentiamo e gli Stormers ci fanno la festa in casa nostra. È dura arrivare tra le prime quattro, se cominci a regalare punti a destra e a manca. Battiamo i Crusaders, che non hanno più Mehrtens. Al suo posto c’è un ragazzino, Dan Carter. Per me quello farà strada. Perdiamo anche contro i Brumbies, la salita si fa ripida. Cavolo, è durissima. Arriviamo all’ultima giornata aggrappati all’aritmetica, i Brumbies sono quarti e hanno tre punti di vantaggio nei nostri confronti.

Perdono, però. Prendono il bonus ma perdono.

Noi dobbiamo affrontare, giusto qualche ora dopo, i Chiefs. I neozelandesi non hanno molto da chiedere a questo torneo, sono noni in classifica e sono la franchigia neozelandese di gran lungo meno competitiva. La soluzione è una e una soltanto: vincere con il punto di bonus. Non possiamo arrivare a pari merito con i Brumbies, la prima discriminante in quel caso sarebbe lo scontro diretto. Partiamo bene, Burke guadagna subito tre punti. I Chiefs ci sono inferiori, ma non demordono. Non riescono a costruire molto, ma non mollano un attimo. Noi non prendiamo il macinato, non ci servono a nulla tre punti alla volta oggi, ma nemmeno riusciamo a finalizzare. Perdiamo palloni facili, ci facciamo prendere dalla frenesia. Ci pensa Burke a fine primo tempo a trovare il buco e a firmare il 10 a 0. Negli spogliatoi ci guardiamo negli occhi e nella ripresa partiamo molto meglio, visto che segniamo subito la seconda meta. Dai, due mete in quaranta minuti scarsi si possono anche fare. Succede di tutto, però. All’improvviso si sveglia il loro estremo, Todd Miller. Segna due mete in 6 minuti. Non è una cosa da poco, visto che la doppietta riporta i suoi a soli tre punti. È una brutta botta, significa che la partita è tutto fuorché già vinta. Non lo era prima, per noi, figuratevi ora. La partita poi si blocca per un serio infortunio al loro tallonatore in mischia. L’ho visto in una posizione forzata, ho sentito un rumore strano e innaturale. Sono momenti in cui non sai cosa fare, hai 500 chili di muscoli che ti premono alle spalle e altri 800 davanti, fermarsi è cosa da fare in tanti. Ha alzato subito il braccio, per fortuna capiamo tutti al volo e ci fermiamo. Sta bene, l’ho visto camminare, fidatevi che va bene così. Al suo posto entra tale Briggs, che non deve essere un fulmine di guerra, visto che dopo due minuti si vede sventolare un cartellino giallo per antigioco. Un uomo in più, mancano 15 minuti, ce la possiamo pure fare. Attacchiamo ogni pallone, loro finalmente cominciano a mollare la presa. Lo sapevo, non potevano avere la forza di ribaltare un match del genere. Non si deve mai sottovalutare un neozelandese sotto nel punteggio, sia chiaro, ma oggi non poteva andare altrimenti. Whittaker serve un brutto pallone all’esterno, ma i Chiefs non hanno la forza di alzare la difesa e guadagniamo ancora metri. Vanno in fuorigioco, l’arbitro se ne accorge e ci dà il vantaggio. Perfetto, ne avevamo bisogno. Whittaker gioca ancora il pallone, lo estrae da un raggruppamento, due passaggi e arriva a me. Non me l’aspettavo, non se lo aspettano nemmeno i Chiefs, che mi lasciano qualche metro.

Ecco, quello è il momento in cui ho fatto la conoscenza diretta delle sabbie mobili. Certo, già viste e accuratamente evitate nelle mie escursioni solitarie fuori da un campo di rugby, ma quando ci finisci dentro le alternative non sono molte. Prima regola non scritta: se senti i piedi affondare, muoviti il meno possibile. Facile, direte voi, con quelle maledette che fanno il gioco delle tre carte alle vostre caviglie. No, non è per niente facile. Chiudo gli occhi e calcio via quel pallone. Lo faccio con un drop, male che vada mi fischiano un “in avanti” e l’arbitro tornerà sul vantaggio, sarà comunque un calcio di punizione per noi. Ci sono tanti modi, in quei casi, per buttare via il pallone: si può lasciar cadere a terra, lo si può sbananare al vento, ché male che vada lo recuperano loro e l’arbitro interrompe il gioco. Avrei potuto pure stare fermo, farmi accalappiare da un paio di neozelandesi e farmi costringere al tenuto, l’ovale sarebbe sempre e comunque tornato a noi.

Io ho deciso di droppare, tanto il pallone caracollerà da qualche parte, inanimato. Lo sapete anche voi, no, i piloni non trovano i loro piedi nemmeno quando devono pisciare, alcuni li hanno persi di vista dopo la pubertà. Il drop è un gesto difficile per chiunque, pure per il mediano dalle tomaie più gentili del mondo, figuratevi per me. Dai però, ovale dei miei stivali, abbassati ora.

Sterza, cazzo.

Esplodi.

Fa’ qualcosa.

L’arbitro fischia, tre punti.

Vantaggio acquisito.

Mi viene quasi da ridere. Effettivamente è una cosa che farebbe sbellicare tutti. Cioè, guardate Adam Jones, lo ha fatto lui e sono scoppiati a ridere pure i telecronisti della BBC. Perché non ridete? Perché mi evitate? Cazzo, dite qualcosa! Una pacca sul culo, qualsiasi cosa.Mi guardano tutti, poi mi rendo conto. Ho mandato a puttane una delle più serie opportunità di segnare la terza meta, quella che ci avrebbe regalato più di dieci minuti di tempo per regalarci il sogno della semifinale.

Come? Con un drop.

Bello, preciso, in mezzo ai pali. Nemmeno a Burke vengono così. Non sempre, almeno.

La terza meta la segniamo, è vero, ma solamente dopo la sirena. Eliminati. In spogliatoio l’atmosfera è invivibile, un silenzio assordante che ve lo regalo. Poi, però, ci ricordiamo di essere uomini ci ricordiamo che gli 80 minuti sono scaduti da un po’ e che qualche birra mitigherà il ronzio delle palle che girano. Ci riproveremo l’anno prossimo, lo diciamo tutti. Poi ci salutiamo.

I giornalisti, con il sottoscritto, non sono così indulgenti. E ci mancherebbe. Qualcuno ci ha riso su, qualcuno ha spalato una bella quintalata di letame sulla squadra, per l’ennesima volta fuori dalla finale. Tutto nella norma, quando perdi.

No, non credo di aver giocato così male, quel 10 maggio del 2003. Quindici anni fa e rotti.

Più di qualcuno mi ha criticato per le mie prestazioni in mischia chiusa, ma fa parte delle regole del gioco. Da lì si riparte e si prova a crescere, mica ci si abbatte per qualche riga di qualche giornalista che deve sbarcare il lunario.

Non ho fatto male.

Ho ceduto alle mie personali sabbie mobili.

Mi hanno rallentato, mi hanno impastato le gambe e annebbiato il cervello.

E mi hanno reso l’uomo sbagliato al momento sbagliato.

Piacere, Matthew Dunning. Matt, chiamatemi Matt.

Lo so lo so, mi vedete più magro di una volta. Merito di un frullato dimagrante e di una dieta un minimo più accorta di quella che mi ha accompagnato per un bel po’. Qualcuno ha detto che finalmente vedrò per bene cosa combinano i miei piedi, metti caso che mi venga voglia di tirare un altro drop. Simpatici.

Ma la birra la bevo ancora.

Hey mate! Grog, please.