Un bambino per la prima volta nel negozio di giocattoli avrebbe fatto trasparire in maniera più saggia le sue emozioni.
Io no, quella sera proprio no.
Amo il rugby da quando a dodici, tredici anni fece breccia per la prima volta nel mio cuore. Erano gli anni delle dirette Rai, telecronache di Andrea Fusco, coadiuvato qualche volta da Vittorio Munari. Ecco, Munari è lì, a forse due metri da me, che prende e si abbraccia tutti i suoi giocatori. Treviso ha appena vinto in rimonta contro Edimburgo, è l’aprile del 2013. Inizio da incubo, poi Vosawai passa sopra a Laidlaw e tutto si mette a posto. Da lì sotto, pochi passi fuori dall’ingresso degli spogliatoi, vedo passare gente che avevo idolatrato solamente davanti ad uno schermo.
O, quando andava bene, dalla parte più alta della gradinata, anche sotto la pioggia, anche quando si perdeva male.
E li vedo passare tutti, in una dolce notte d’aprile: Simone Favaro, che in un’altra epoca storica, per caparbietà e capacità gladiatorie, avrebbe dato del filo da torcere a Monzón; Ludovico Nitoglia, un’ala che rimpiangeremo ancora per un po’ da queste parti; Luke McLean, uno tra i giocatori più sottovalutati del panorama ovale italiano.
Il più richiesto dai giornalisti, però, è il capitano.
Lo placcano tutti, gli fanno domande e complimenti. Mi viene presentato, fa due chiacchiere. Da quel momento in poi non capii più nulla, spero non si sia visto così tanto.
Leonardo Ghiraldini, poi, stringe la mano anche a me.
Come se avesse dovuto presentarsi.
Gentile, misurato, pronto alla battuta. Ha il prato di Monigo su maglia e ginocchia e l’atteggiamento di chi sembra sia pronto per il tè delle cinque. I compagni attendevano, in campo e fuori, una sua parola, un suo gesto, e il fatto che stesse lì a parlare con un fessacchiotto come il sottoscritto mi sembrò una mancanza di rispetto per chi lo attendeva altrove. Dai Leo, dai Capitano, che ti stanno aspettando. No, non me lo dimenticherò mai quella mia prima volta nel mio personale negozio di giocattoli.
Sono passati quasi sei anni da quel giorno. In un fresco pomeriggio di marzo sono anch’io all’Olimpico, in tribuna stampa. Ho faticato parecchio per arrivarci, ma alla fine ci sono riuscito. Intorno a me ci sono personaggi che credevo fossero solamente firme di articoli leggendari, testi che nella mia formazione sono più o meno al livello del Pentateuco. Quella contro la Francia è una partita stregata. Siamo nettamente più forti, ma non sfruttiamo minimamente tutto quel che produciamo.
Un pallone alto all’altezza della metà campo, lo conquistano loro. Resta a terra uno dei nostri. All’inizio non si capisce bene chi sia, poi intravediamo il numero due. Leo. Autore di una partita quasi inappuntabile fino a quel momento. Si tiene il ginocchio, piange. Io me lo ricordo, nel 2013, qualche settimana dopo quel mio primo incontro, vederlo uscire anzitempo dal campo. Si teneva una mano, arnese indispensabile per un tallonatore, ma camminava tranquillo e lucido come chi si sarebbe assentato solo per qualche minuto. A fine partita, con tutta la pace e la tranquillità del mondo mi disse che sì, era solamente una lussazione a due dita, niente di grave.
Solamente una lussazione.
Ecco, uno con quel tipo di sopportazione del dolore è lì a terra. Piange, urla. Si avvicinano due francesi per rincuorarlo. Poco dopo arrivano le immagini e si vede il ginocchio fare perno su un piede francese e torcersi in modo innaturale. Chi dice legamenti, chi dice ossa, non si sa. Leo rimane a terra, si tiene la gamba destra ma sa che, almeno per oggi, è finita. Respira forte per fregare il dolore, ma la lotta è dura. Lo portano fuori tra gli applausi di un Olimpico commosso.
La partita continua. La Francia che si è presentata a Roma non è minimamente parente dei conquistatori scesi a Roma nelle loro annate migliori. I ragazzi di Brunel hanno una paura folle, dei bachi nella testa grandi come un pugno. Sanno che quella partita la possono perdere, ma noi non riusciamo ad ammazzarli una volta per tutte.
E sì che di occasioni ne abbiamo avute tante.
Gli ultimi minuti sono uno psicodramma: noi nei loro 22, loro fanno falli su falli. Prendono pure un giallo, ma non caviamo un ragno dal buco.
Poi è un attimo. Le telecamere riprendono Leo seduto a vedere la partita. La gamba tenuta ferma da un tutore, il viso rigido e fiero, gli occhi lucidi che ricordano il crollo di una diga.
È stato un attimo, un solo fotogramma.
Sono crollato.
Una lacrima, non vista, mi ha solcato l’enorme guancia.
Non me l’aspettavo. Credo di essere in ottima compagnia, visto che nemmeno Sergio Parisse riuscirà a trattenere la commozione in conferenza stampa, ma questo lo scoprirò solamente più tardi.
Il ragazzo che aveva il prato di Monigo su maglia e ginocchia e sembra sia pronto per il tè delle cinque ha subito una botta tremenda, ma ha deciso che non mollerà nemmeno questa volta.
Quell’immagine dice quanto il rugby sia qualcosa che travalica, che va oltre dolori, ginocchia ferite e lettighe.
E lo fa in modo crudo e inaspettato, proprio come quella lacrima.
Proprio come quel crac che nessuno voleva.
Non si sa come andrà a finire, da qui a settembre.
Sappiamo che Leonardo Ghiraldini proverà ad esserci, in Giappone, nonostante un crociato rotto.
Forse sarà l’ultimo atto in azzurro di un giocatore irriducibile, fiero e guerriero come pochi altri si sono visti a queste latitudini. Tra gli ultimi a mollare di una generazione fortissima, quella del quarto posto del 2013.
Ma a questo è meglio non pensare. Non ora, ragazzi.
Per me Leo continuerà ad essere uno dei primi ad accogliermi nel negozio di giocattoli. A parlare con un fessacchiotto che, in una dolce sera di aprile, non riusciva a capire dov’era.
Ma che, da quel momento, ha intuito che qualche passo, su quella strada, si poteva fare.
Comunque vada, giù il cappello Leo.
E giù altre lacrime.