Michela era una bambina esuberante. Speciale. Già a cinque anni seguiva il papà sul campo da rugby perchè lei amava quello strano sport dove tutti inseguono una palla che non si sa mai dove farà il secondo rimbalzo. La nostra società era sgangherata, tanti giocatori seniores e poche giovanili. Anzi pochissime. Ma Michela, una volta ottenuto il lascia passare paterno, era sempre sul campo da rugby a correre e placcare. Lei si allenava più degli altri. Placcava più degli altri. Correvapiù degli altri. Così la nostra piccola squadra giovanile vinceva e pure tanto. E il merito era sempre di Michela. Certo, lei era la più forte, ma questo non era il motivo delle vittorie. Lei era coinvolgente, una trascinatrice, per cui tutti i ragazzi erano stimolati a provare a fare come lei in mezzo al campo e questo aveva creato un piccolo grande gruppo di amici e rugbisti. Gli anni delle giovanili divennero un successo. Vittorie, vittorie e ancora vittorie. Poi, però, arrivò il regolamento. Le ragazze con le ragazze. I ragazzi con i ragazzi. E così Michela, dopo una battaglia familiare, convinse il papà a farla allenare con i maschi. In quel momento la tenacia di una ragazza divenne incredibile e, di fatto, almeno per noi fece storia. Lei ad ogni placcaggio subito si rimboccava le maniche. Ad ogni stupida presa in giro non rispondeva (a quello ci pensava Enrico, il pilone della squadra e suo migliore amico da sempre), ma replicava sul campo. Era in assoluto la più forte giocatrice della nostra giovanile. Tutti lo sapevamo. Tutti. Era così brava che, pur non giocando, aveva attirato le attenzioni di una squadra cittadina che, avendo un settore femminile, voleva valutare le qualità di questa rugbista di cui si parlava tanto nell’ambiente. L’allenamento andò come sempre. Michela una spanna sopra gli altri. E i due scout, accorsi per vederla? Si erano convinti al riscaldamento. Così la nostra società le diede la possibilità di giocare in una squadra completa di rugby femminile. Ma in quel momento, proprio in quel momento qualcosa si ruppe. Le visite mediche di rito non andarono bene. C’era qualcosa che non tornava. I controlli furono sempre più frequenti e alla fine diedero l’esito peggiore. In apprensione fuori dalla stanza di quel medico c’era una società intera, una squadra al completo. Quando suo padre cercò di spiegare cosa stava accadendo a Michela i più non capirono, ma la lacrima che lentamente scese lungo la guancia di Mario fu inequivocabile. Lentamente percorse il viso di una persona che aveva giocato per una vita in prima linea, passo a fianco a numerose cicatrici lievi, scivolo tra la barba bianca ispida e si spense tra le sue labbra intente a spiegarci cosa sarebbe successo a sua figlia. Tutti la seguimmo, senza ascoltarlo. Perchè avevamo capito che quella lacrima di Mario valeva più di mille parole. Il periodo seguente fu tra i più cupi della nostra vita. Michela, costantemente, rispondeva sempre sorridendo. A tutti. I sogni ovali vennero messi da parte, ma la passione rimase. Tante le chiacchiere sulle partite dei suoi amici che, Enrico le raccontava domenica dopo domenica. Quando anche l’ultimo capello scivolò via dalla sua testa lei sentenziò: “Dai ragazzi non sarò mica poi così brutta, ora possiamo dire che assomiglio definitivamente a Keith Wood. Meglio di niente!”. Lei non si lasciava mai sopraffare dalle emozioni. Mai. Noi, però, sì. E pure tanto. Spesso non le raccontavamo com’erano andate veramente le partite, perchè senza di lei tutto era diventato più difficile. Ma tanto lei sapeva che mentivamo, solo stava al gioco. Così tra racconti di allenamenti e gare il tempo passava. Michela non migliorava. Ed Enrico, allora, decise di farle un regalo. Fece così tanto rumore in paese, che riuscì a mettere in piedi una squadra di rugby femminile. Piccola, sgangherata, ma pur sempre la prima squadra femminile della nostra società. Michela ne fu entusiasta. Quando Enrico le raccontò tutto, per la prima volta i suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia. Poi prontamente nascoste da una battuta. Lei non voleva mai farci vedere di essere maledettamente sensibile. Noi lo sapevamo, ma le reggevamo il gioco. Organizzammo tutto per la prima partitella ufficiale della nostra squadra femminile. I medici ci avevano anche dato la disponibilità di portare Michela al campo. Tutto sembrava filare liscio. Ma in queste cose la sfortuna è sempre dietro l’angolo. Michela, infatti, peggiorò di colpo e il suo piccolo grande cuore smise di battere in meno di tre giorni. Furono le 72 ore più brutte della nostra vita. Tutta la squadra attese. Tutti gli amici di una vita sperarono fino all’ultimo in un miglioramento. Purtroppo questo non arrivò. In 72 ore la nostra amica passò la palla, troppo presto. Suo padre ci abbraccio uno ad uno. Quasi come fossimo tutti suoi figli. Enrico, lo ricordo bene, rimase in silenzio. Con gli occhi gonfi di lacrime, senza tuttavia piangere. Al funerale, poi, c’eravamo tutti, ma lui mancava. Lui aveva portato le ragazze della squadra alla prima gara ufficiale. “Così avrebbe voluto Michela. Perchè gli impegni presi vanno sempre portati a termine”, sentenziò. La squadra perse la partita e al fischio finale Enrico si lasciò andare in uno di quei pianti interminabili, perchè quando un pilone piange…piange. Oggi a distanza di anni tutti alleniamo ancora a rotazione la formazione femminile. Un segno che ci lega a Michela. Scomparsa troppo giovane e che, sicuramente, sta insegnando rugby ovunque lei abbia deciso di andare a giocare.
@davidemacor