L’attacco inglese è feroce, i gallesi sono rintanati nei 22. Stanchi, scossi, fisicamente distrutti. Hanno un centro ad estremo, l’apertura a centro, un mediano di mischia all’ala. Una mischia che non tiene più, ma quando mai ha tenuto nei 76 minuti trascorsi fino a quel momento.
Ma contendono la palla.
Jerome Garcès, l’arbitro, fischia fallo, il placcatore non rotola. Sam Warburton, capitano e autore del fallo, si mette le mani in testa. Non è dato sapere se per stanchezza o per altro. L’altro capitano, quello in bianco, non perde troppo tempo. Si consulta con i suoi cecchini, al secolo George Ford e Owen Farrell. Il calcio è molto angolato, i tre si guardano. La palla la prende Ford. È giovane Ford, ha 22 anni, ma se lo guardi bene gliene dai pure due o tre in meno. Sbarbato, occhio quasi languido, lineamenti da bravo ragazzo del banco accanto. È giovane ma anche deciso, perché si gira da Garcès e gli indica la touche. L’arbitro acconsente.
Twickenham ha un sussulto.
Inghilterra-Galles non è mai un match come gli altri. La rivalità è latente, gli animi si scaldano, gli aneddoti si sprecano. Basti pensare al famoso discorso nello spogliatoio di Phil Bennett nel 1977, quello dei cavalli e dell’acciaio. Gli animi si inferociscono, la battaglia si inasprisce. No, Inghilterra-Galles, o Galles-Inghilterra, non è mai banale.
Pensate poi se, invece di capitare una volta all’anno, capitasse più volte nel calendario.
E pensate se capitasse durante una Coppa del Mondo.
Perché va proprio così. Il sorteggio, fatto a dicembre del 2012, mette nello stesso girone Australia, Inghilterra e Galles. Poi la più forte della quarta fascia, le Fiji, e l’Uruguay. Warren Gatland, il ct gallese, si lamenta parecchio, e un po’ di ragione ce l’ha, visto che a settembre 2015 la seconda, la terza e la quarta squadra del ranking si giocano due posti nello stesso girone. Gatland non è sereno, ma proprio per niente. Non tanto perché il suo Galles non ha convinto nei test precedenti al torneo, è storicamente provato che il Galles faccia fatica a carburare allo sparo dello starter. No, il coach neozelandese pensa ad altro. Pensa a Jonathan Davies, già fuori dai giochi a maggio. Pensa a Rhys Webb e a Leigh Halfpenny, due armi terminali infortunatesi gravemente nell’ultimo test contro l’Italia. È preoccupato, e non tanto dai giornalisti, che lo vedono come il vero responsabile di questi ultimi due forfait. L’Australia di Michael Cheika sembra aver trovato la quadratura del cerchio. Ha appena vinto il Championship battendo tutte le avversarie, ma il grande risultato di Cheika è un altro: riesce a mettere insieme i tanti galli nel pollaio che avevano affossato le speranze dei Wallabies negli anni passati: gente come Quade Cooper e Kurtley Beale sembra rinata. Poi trova un’apertura, Bernard Foley, che non sarà un fenomeno ma che fa girare tutti al massimo. No, con questi si perde nove volte su dieci.
Bisogna giocare sugli inglesi.
L’Inghilterra gioca in casa, e giocare tutti i match più a rischio a Twickenham (con l’Uruguay, infatti, giocheranno a Manchester) sembra essere la grande mano che serve ai ragazzi di Stuart Lancaster. Gli inglesi giocano un rugby diverso da quello a cui siamo abituati a vedere, quello fatto di 8 galeotti davanti, un ottimo calciatore e trequarti solidi ma sui binari. Lancaster assembla infatti il meglio di Bath, squadra che ha appena vinto la Premiership facendo vedere meraviglie coi trequarti, e dei Saracens, squadra che ha allenato fino al 2011. Schiera due ali incredibili sul lanciato come Watson e May (che viene da Gloucester), più un estremo, Mike Brown, bravissimo negli inserimenti e nelle corse palla in mano. Ai centri il suo feticcio è Brad Barritt, centrone di origine sudafricana dei Saracens. Al suo fianco schiera di solito un’altra freccia, Jonathan Joseph, ma nota che le garanzie maggiori gliele dà Sam Burgess, ex giocatore di Rugby League. Burgess fisicamente è mostruoso, sa giocare pure terza linea e in difesa è un muro, difficile lasciarlo fuori. A gestire tutto questo ben di Dio ci sono Ben Youngs e uno tra Owen Farrell e George Ford. Davanti c’è l’artiglieria pesante, a cominciare da Billy Vunipola a numero 8 e Courtney Lawes in seconda. Il capitano, quello di cui si parla qui sopra, è Chris Robshaw, ventinovenne terza linea degli Harlequins. Storicamente non è mai stato amato dall’opinione pubblica inglese, dicono che sotto pressione sbagli le scelte fondamentali. Le sue quotazioni però si sono alzate dopo il match inaugurale del 6 Nazioni, al Millennium Stadium, quando i gallesi provarono a tenere fuori al freddo gli avversari per più di qualche minuto. Pretattica, tutto quel che volete, ma Robshaw si fece sentire dall’arbitro e risolse il tutto. Vinsero gli inglesi in rimonta, da lì in poi nessuno ebbe più niente da dire.
Il debutto dei padroni di casa avviene contro le Fiji e arrivano subito due mete in carrozza, una tecnica e una di Brown. Poi però si fermano. I figiani non rubano nulla, anzi, sprecano due o tre calci clamorosi, tanto che si arriva a 10 dal termine sul 18 a 11. Alla fine portano a casa il bonus, ma qualche scricchiolio lo si avverte. Il Galles intanto sbriga la pratica Uruguay ma perde Cory Allen, centro, e rischia grosso quando esce Liam Williams, unica alternativa credibile rimasta ad estremo. Recupererà in tempo per il match, con lui Amos e North nel triangolo allargato. Sfavoriti, campo avverso e panchina corta, ma Gatland tocca le corde giuste, soprattutto coi suoi leader carismatici: Sam Warburton, che è il capitano e deve farsi perdonare il rosso subito in semifinale nel 2011; Alun-Wyn Jones, vero colonnello in campo. E poi ce n’è un altro, insospettabile, almeno al guardare le convocazioni passate di Gatland. Si chiama Dan Biggar, gioca negli Ospreys. È un mediano di apertura meraviglioso, ha piedi e mani che cantano, in più placca e va a contendere in prima persona i palloni aerei. Fa fatica a prendersi con Gatland, ma quando i due entrano in sintonia è fatta. Il ct scopre nel numero 10 una capacità di leadership che non credeva appartenergli: gli dice due parole, Dan capisce e applica.
La vincono qui la partita, ma ancora non lo sanno.
Twickenham attende, stipato all’inverosimile. Ci sono inglesi, gallesi, poi gente da tutto il mondo. E da tutti i mondi. In tribuna ci sono i figli di Carlo, William (con Kate) e Harry. Uno bardato di rosso (William), l’altro con la rosa al petto (Harry). Fratelli contro, per 80 minuti. Il match non è dei più belli, la tensione si taglia a fette ben spesse. Si va avanti coi calci: Biggar apre, Farrell risponde, anche col drop. Dopo 20 minuti il risultato dice 9 a 6 Inghilterra, poi la partita si spacca: gli inglesi allargano un possesso conquistato in touche, Watson buca una prima volta, poi May arriva in fondo. Twickenham viene giù come solo uno stadio del genere sa fare. Poi è tutto un florilegio di Swing low, Sweet Chariot. Gli inglesi sembrano avere la partita in mano: sono dominanti in mischia, Marler dispone a suo piacimento di Tomas Francis. Appena possono tirano delle accelerate che il Galles non sembra poter difendere. I gallesi se va avanti così non ne hanno, ma nei raggruppamenti tengono caparbiamente botta. Biggar e Farrell riprendono il loro duello al piede, nessuno ha intenzione di sbagliare. Si va al riposo sul 16 a 9, poi è ancora botta e risposta al piede. Al 49′ deve uscire Ben Youngs, che sta facendo un partitone, entra Wigglesworth, che non è Danny Care, buttato dentro solitamente per fare un bel po’ di casino nell’ultimo quarto di partita. Più ragioniere, Wigglesworth, più compassato. Ma ci può stare, i gallesi non sembrano essere in grado di rientrare, un po’ di tattica non guasta.
Piano però, quando si parla dei Dragoni. Biggar porta la contesa sul 22 a 18, fa sei su sei, ma non è solo questo. Sa sempre cosa fare, sa sempre come e dove mandare la palla. Mani e piedi eseguono. E oltre a questo butta in campo una cattiveria agonistica che tanti in mischia si sognano.
Dà l’esempio, Gatland lo guarda compiaciuto.
Passata l’ora di gioco, però, il Galles deve sostituire Scott Williams con Alex Cuthbert, ala pura. È North a dover passare a centro. Ma non finisce qui: passano due minuti e si infortunano, nella stessa azione, Hallam Amos e ancora Liam Williams. La panchina langue, sono rimasti lì solo i due mediani, Lloyd Williams e Rhys Priestland. Tutti dentro: Jamie Roberts scala ad estremo, Biggar a centro, Lloyd Williams all’ala, Priestland apertura.
Mai vista una moria fisica del genere a questi livelli.
Non ad una Coppa del Mondo, almeno.
Intanto Farrell fa 25, ancora 7 punti di scarto.
Sembra finita, l’Inghilterra deve solo attendere, i gallesi sono contati e fuori ruolo, non possono dare ancora così tanto fastidio.
Dai, non possono.
E invece a suonare la carica ci sono ancora loro, Warburton e Alun-Wyn Jones. Poi la palla viene allargata, arriva a Lloyd Williams all’ala che corre. Quando si trova davanti Mike Brown calcia. Ma non a seguire. È un calcetto verso il centro. Wigglesworth, che stava scalando, è preso in controtempo, Gareth Davies si lancia da solo, prende la palla e schiaccia in mezzo ai pali. I gallesi allo stadio si trasformano improvvisamente in arabe fenici, tornano alla vita dal baratro. Sono in minoranza, ma mica si sente. William, là in tribuna, applaude e riprende colore. Il braccino degli inglesi torna con tutti i suoi spettri, era una partita già vinta.
Sembrava una partita già vinta.
Ford, appena entrato, cerca un up’n’under, lo riceve Priestland, gli avanti mantengono il possesso, poi Biggar restituisce il favore. La palla la prende Brown, ma si trova contro una selva di maglie rosse. Warburton e Gethin Jenkins vanno a caccia, Brown non la molla: è tenuto. 50 metri, centimetro più centimetro meno. Biggar non ha dubbi: pali. Si muove, sembra abbia il ballo di San Vito, chiamano la sua gestualità dalla piazzola Biggarena, ricorda tantissimo quel trito e ritrito balletto degli anni ’90 che vi fa sentire vecchi ogni volta che si fa vivo nel bel mezzo della più morta delle feste. La palla viaggia comoda, dritta. Muore giusto due-tre metri dopo aver centrato i pali. Il Galles torna avanti, Twickenham sembra quasi rivivere l’incubo del Maracanazo, la sconfitta del Brasile contro l’Uruguay nei Mondiali di Calcio del 1950.
No, non si può perdere così.
L’attacco inglese è feroce, i gallesi sono rintanati nei 22. Stanchi, scossi, fisicamente distrutti. Hanno un centro ad estremo, un’apertura e un’ala a centro, un mediano di mischia all’ala. Una mischia che non tiene più, ma quando mai ha tenuto nei 76 minuti trascorsi fino a quel momento. Eppure sono avanti di tre punti e contendono ancora la palla. Jerome Garcès, l’arbitro, fischia fallo, il placcatore non rotola. Sam Warburton, capitano e autore del fallo, si mette le mani in testa. Non è dato sapere se per stanchezza o per altro. L’altro capitano, quello in bianco, non perde troppo tempo. Si consulta con i suoi cecchini. Touche.
Mai stato amato dai tifosi inglesi, dicono che sotto pressione sbagli le scelte fondamentali.
E questa è una scelta fondamentale.
Rob Webber lancia la palla, la prende capitan Robshaw. Nessun gallese salta, attendono tutti giù. E spingono, spingono e girano la maul inglese. Poi spingono ancora. Gli inglesi non se l’aspettavano, muoiono in touche col pallone in mano. Poi si guardano, capiscono che solo un miracolo può salvarli.
Solo che il miracolo lo fanno quelli vestiti di rosso. Se ne rendono conto quanto Faletau tira fuori un pallone da una mischia arrotata dagli inglesi e va a terra. I compagni la puliscono bene, poi la palla arriva a Dan Biggar. Il tempo è scaduto, per non sbagliare la butta in curva.
Mai sentito Twickenham così silenzioso. Harry, in una immagine che ha fatto il giro del mondo, guarda mesto William e Kate abbracciati e felici. Anche lui, come molti, sa che probabilmente il Mondiale dei padroni di casa è finito qui. La sentenza definitiva la darà Bernard Foley di lì ad una settimana, nel giorno in cui anche la culla del rugby inglese imparerà a fischiare i calci avversari.
Arriverà Eddie Jones, forse sarà tutta un’altra storia.
Il Galles arriverà secondo nel girone, battuto solo da una grande Australia in una battaglia senza quartiere. Poi uscirà ai quarti, quando Fourie du Preez darà la sua ultima pennellata ai girasoli e porterà gli Springboks a giocarsela con gli All Blacks.
Ma se trovate qualche gallese nei vostri giri, in questa vita o in un’altra, chiedetegli di quel giorno a Twickenham. Chiedetegli di Dan Biggar. Avrete birra pagata e racconti da tramandare. Come quello di Phil Bennett, dei cavalli e dell’acciaio. Come quando una squadra decimata espugnò lo stadio dell’avversario più odiato dal 1823.
Inghilterra-Galles. Galles-Inghilterra.
Non ci si annoia mai. Ricordatelo, tra un aperitivo e una cena romantica, tra una messa cantata e un pranzo dai parenti. E ogni volta che rosso e bianco si mischiano in campo, al di là della Manica.