Sono passate quasi 24 ore dal drop di avvio di Italia-Inghilterra, primo match azzurro del 6 Nazioni 2018. Il risultato finale, un perentorio 46 a 15, se preso come solo metro di giudizio del match, non lascia molto spazio ai giri di parole. 7 mete e 31 punti di scarto sono un bel bagaglio da mettere sul groppone. Ma gli 80 minuti vissuti all’Olimpico ieri dicono anche altro, e qualche cosa di buono per il futuro azzurro si è vista. Il piglio con cui si sono affrontati gli inglesi, per esempio, oramai unici veri antagonisti degli All Blacks per la conquista del tetto del mondo ovale. Per un’ora abbondante gli azzurri non si sono limitati a difendere a oltranza, hanno provato ad osare, a erodere terreno, a tenere il possesso preferibilmente di là, nel campo inglese. Cosa questa mai vista, o solo a brevi tratti, nei test match di novembre. Testimonianza di questo è la prima meta, trovata al largo dopo una bella sventagliata dei trequarti e un paio di percussioni di Giammarioli e Budd. Castello, Negri e Zanni nel primo tempo hanno portato palloni in avanzamento nonostante i chili in difetto rispetto ai cingolati inglesi. Anche la nostra seconda segnatura viene da una serie di assedi azzurri nei 5 metri inglesi e da un profondo allargamento a Bellini. Due mete agli inglesi, a questi inglesi, non è un brutto bottino. Soprattutto se si considera il fatto che le due segnature azzurre non sono arrivate quando l’avversario ha già tirato i remi in barca, ma ancora quando il match non era definitivamente chiuso. Ai carichi pesanti di Benvenuti e Bellini potremmo aggiungere quello di Boni, vanificato dall’avanti di Allan. Chissà cosa sarebbe successo lì, sul 10-20, se avessimo prodotto 7 punti. A livello di singoli, oltre a quelli già citati, menzione d’onore a Matteo Minozzi, sontuoso nel gioco aereo quando Farrell e Ford hanno cominciato a misurarci la febbre e alla nostra touche, in grado di portare a casa molti possessi. Per 67, 68 minuti tutto abbastanza bene, se si considera il punteggio di 27 a 15.
Poi, però, sono arrivate le note meno liete.
Gli ultimi minuti azzurri non sono stati all’altezza, cosa che ha permesso a Farrell e compagni di tracimare nel punteggio. L’ultima parte del match ci ha visti in seria difficoltà di ossigeno e forse anche di energie nervose, prova ne sono i due calci d’avvio malamente regalati agli inglesi. Se pensiamo che poi i nostri avversari nel finale potevano permettersi sostituti quali Kruis, Joseph e Nowell, beh, i conti sono presto fatti. Oltre a questo cedimento finale ci sono da registrare, da parte nostra, alcune lacune da mettere a posto al più presto. In primis la disciplina, visto che è sanguinoso commettere falli con gli avversari sì in possesso dell’ovale, ma ancora rintanati nei loro 22 metri. È successo più di qualche volta ieri, troppe per poter reggere a questo livello, visto che ogni fallo ieri regalava di fatto dai 35 ai 50 metri di campo agli inglesi. La mischia chiusa, ieri alleggerita con la scelta di schierare di fatto 5 terze linee, nel secondo tempo non ha retto, complice forse una coperta ancora troppo corta alla voce “piloni”. E poi la difesa, lacunosa e incapace di reggere i tempi di rilascio e di passaggio degli avversari. Le prime due mete, in questo, sono eloquenti: due allargamenti con loop tra Ford e Farrell, due volte Watson al largo a liberare i cavalli. Una meta in prima fase, una in seconda previo placcaggio sulla testa di ponte Te’o. In questi frangenti bisogna lavorare a fondo, ben sapendo che la soluzione, quando si tratta di meccanismi che coinvolgono un sistema di giocatori, non è mai dietro l’angolo.
L’Inghilterra si è rivelata la squadra che conosciamo da un po’: pesante e mortifera nei raggruppamenti, letale in mischia, spaventosa con i trequarti. Al momento un giocatore elettrico come Anthony Watson non ha rivali in Europa nel suo ruolo. Né nessuno ha un doppio playmaker, dotazione australiana di serie (guardatevi i Brumbies di Eddie Jones e capirete un paio di cose). Ford e Farrell, visti in Veneto ai Mondiali under 20 del 2011, per molto tempo hanno vissuto sulla loro pelle un dualismo per la maglia numero 10. In fondo, se ci pensate, gli inglesi vecchio stile hanno sempre guardato con ammirazione quelle linee di centri penetranti, grossi e preferibilmente placcatori. Ma con due playmaker con quella capacità di trovarsi, quella incredibile velocità di pensiero, gli inglesi si candidano ancora alla vittoria finale. Soprattutto se si considera che Galles e Irlanda, vittoriose sabato, dovranno passare per Twickenham, dove il Carro, The Sweet Chariot, scivola giù che è un piacere.
È scivolato giù di brutto anche ieri, in quel di Roma, se avete sentito bene tra il pubblico. Una esecuzione continua, da brividi. Come quella in campo. Con la differenza che, forse, la discesa pericolosa sta terminando anche per noi.
Ci vorrà tempo, e da queste parti ai progetti seri di tempo bisogna regalarne.