Le promesse sono fatte per essere mantenute. Me lo sono sentito dire non sapete nemmeno quante volte. Mai sgarrato, quel che dico di solito lo faccio. O almeno, provo con tutto me stesso a portarlo a termine. Se dico di andare a messa, ci vado. Brontolo, ma ci vado. Se dico che quella terza linea la fermerò, in qualche modo la metterò giù, cascasse il mondo. Non è colpa mia se poi l’arbitro fischia. Il placcatore non rilascia. Fallo professionale, il più delle volte corredato da cartellino.
Non è colpa mia, stavo mantenendo le promesse fatte.
O almeno ci stavo provando.
No, troppi falli, troppi cartellini. Costicchiano, i fischi dell’arbitro, nell’economia di una partita.
Sì, ma mantenevo le promesse fatte.
No.
Mi sembrava di mantenerle, ma mi sfuggiva lo scenario. È come quando fai di tutto per rincorrere quella che credi essere l’occasione della tua vita, ti fai un mazzo così e poi ti rendi conto che il tuo vero obiettivo era un altro. Obiettivo ormai compromesso dalla strada che hai già compiuto. Ci sei passato vicino, ma nemmeno l’hai considerato. La frustrazione, ragazzi. È come quando mi chiamarono i Chiefs, avevo vent’anni. Mi avevano visto ai Mondiali under 20 dell’anno prima e dovevano sostituire Craig Clarke, volato in Irlanda a far grande il Connacht. Io credevo di essere a buon punto. Non dico il migliore, ma ero convinto di potermela giocare già da subito. Me lo dissero chiaro e tondo: noi in te abbiamo visto qualcosa, e quel qualcosa lo tireremo fuori. Si espresse, ma questo lo seppi dopo, pure Brodie Retallick. Se da grande vuoi diventare una seconda linea uno come Brodie Retallick non dico che per te dev’essere quello che spezzava il pane e versava il vino, ma di sicuro uno dei dodici che gli stava a fianco. Disse che era rimasto impressionato dalla mia fisicità e dalle mie potenzialità. Mi volevano tenere, i Chiefs, nonostante un paio di volte abbia rischiato di metter fuori causa Aaron Cruden con un placcaggio a ribaltare. Non mi hanno tenuto, ma mica perché c’era tanta gente più forte di me. No, mica per quello. Non sapevo l’inglese, non riuscivo a comunicare perfettamente con gli altri compagni di squadra. Avrei voluto dir loro che se nasci in una terra colonizzata dai connazionali di Cervantes l’inglese non è la prima cosa che ti viene naturale al momento di aprir bocca. E neppure la seconda. Poi però mi sono reso conto che, forse, andare in Nuova Zelanda per finire a vivere in un appartamento di messicani non è stata l’idea più brillante del mondo. Sarebbe bastato un madrelingua inglese, un irlandese. Toh, pure un figiano. Niente, colpa mia. Avessi spiccicato due parole in più nella loro lingua forse avrei avuto una carriera diversa. Consecutio temporum di un certo livello. Congiuntivo e condizionale insieme, nella stessa frase, mica sono per tutti. E mi rendo conto che quelli che parlano di sé usando spesso il congiuntivo e il condizionale, forse, non hanno fatto proprio tutto quel che la vita aveva in serbo per loro.
O forse non lo hanno fatto per bene.
Mi propone un buon contratto il Racing Metro, squadra di Parigi. Maglie bianche e azzurre, come i colori che porto sempre dentro di me. Certo, con i Pumas ho già debuttato, i Mondiali giovanili del 2013 li avevo già giocati con un paio di caps in saccoccia, ma ero uno sbarbatello, sentivo che la consacrazione sarebbe arrivata, ma che dovevo attendere. A Parigi gioco poco, una decina di partite, poi torno a casa. Hindú, Buenos Aires. Non ci resto tantissimo, dicono che di qui a poco nascerà una franchigia tutta argentina. La vogliono per partecipare al Super Rugby, la più grossa competizione dell’emisfero australe. Los Jaguares, scenderanno anche tantissimi giocatori al momento in Europa. Debuttiamo nel 2016, nel giro di tre anni arriviamo ai quarti di finale. Siamo una gran squadra.
A me, però, non è che stia andando così bene.
Non fraintendiamo, gioco e sono felice. Pure con i Pumas. Ma non tutti vedono in me il giocatore che vorrei essere. Non è colpa mia, sto mantenendo le promesse fatte.
O almeno ci sto provando.
No, troppi falli, troppi cartellini. Costicchiano, i fischi dell’arbitro, nell’economia di una partita.
Sì, ma sto mantenendo le promesse fatte.
No.
Faccio falli, qualche volta pure stupidi. Penso troppo a menare le mani, dicono. È vero eh, ho il sangue più caldo di altri, ma vorrei vedere voi quando vi ritrovate davanti uno come Eben Etzebeth. Cavolo, è pure peggio di Bakkies Botha. Troppi cartellini. Me lo dicono gli allenatori, lo dicono in modo molto più crudo le statistiche. Eppure mi sembra di fare il mio, di giocare come so. Non so perché, ma in momenti come questi mi sembra di rivivere la faccenda dell’inglese ai Chiefs. Pensavo talmente tanto a migliorarmi in campo dal trascurare la lingua. Penso talmente tanto a farmi rispettare in campo che non penso alle rogne che procuro ai miei compagni, ai miei fratelli. Mi sfugge lo scenario. Ho 25 anni e più di qualche membro dello staff ha detto che se continuo così rischio il posto. Rischiare il posto significa, nella migliore delle occasioni, girovagare per l’Europa alla ricerca di un discreto contratto. Cosa fattibile nei primi due-tre anni, poi si cala. Comincia la trafila dei campionati minori, sempre più in giù, poi una carriera da allenatore.
E, molto probabilmente, una lista di condizionali e di rimpianti lunga come la strada da qui all’altra parte del campo.
Quanto è distante l’altra parte del campo, quando gli avversari ci chiudono nei nostri 22 metri.
C’è da capirli, stanno perdendo in casa loro contro gli ultimi arrivati. Non hanno mai perso contro di noi da queste parti. Ci siamo andati vicini un paio di volte, ma lo scalpo è sempre rimasto qua. Oggi non ho preso cartellini, lieta tradizione che continua dal primo fischio d’inizio della stagione. No, non voglio parlare al condizionale quando mi chiederanno della mia carriera. Non voglio che pensare al mio destino, ma voglio pensarci e metterlo a posto al meglio. il meglio, però, passa per quest’ultima azione. I Wallabies, quando aprono il gioco, sono maestri nel ferirci mortalmente. Soprattutto quando la palla passa per le mani di quel Folau. Israel Folau, tanto disastroso nel parlare fuori dal campo quanto fenomenale quando muove i garretti. Ci ha fatto malissimo nel primo tempo, con quelle gambe snodate e quel compasso da ballerino consumato. La palla gli arriva ancora, Ezcurra prova ad anticipare la salita, ma quello con due passetti lo prende all’interno e accelera. Corre verso la bandiera, avrebbe Foley liberissimo di schiacciare in bandierina. Lui, però, sterza all’interno. Credo abbia visto Moroni, secondo centro, fisicamente inferiore a lui in caso di impatto. A così pochi centimetri dalla linea lo sfondamento è una discreta opzione, avrà pensato.
Vicino a quel numero 13, però, Folau non ha calcolato che ci potesse essere qualcun altro. I trequarti li ha fumati tutti, ma mica ci stanno solo quelli in campo.
Si era dimenticato di una seconda linea di 130 chili, per esempio, dal sangue caldo e dall’inglese balbettante.
Lento, grosso, ma che nel caso sa costruire muri e placcare scenari sfuggenti.
E che si è stancato di parlare di sé usando il condizionale.
Mi chiamo Tomás Lavanini e sarò un Pumas da ricordare.
Indicativo presente.