Ogni tanto ci ripenso a quel giorno. Non avevamo nulla da perdere, la partita era indirizzata dalla parte giusta. La nostra, intendo. E chi l’avrebbe mai detto. Abbiamo passato un’estate infame, tra compagni che facevano le valigie e notizie varie sul nostro più completo disarmo. Qualcuno diceva che il nostro ridimensionamento avrebbe dovuto comportare la nostra esclusione dalla Challenge Cup. Ci avevano strappato di mano la più bella storia che avessimo scritto fino a quel momento, ce l’avevano imbrattata e dovevamo ripartire. Brutto quando capita. Ce l’avevamo fatta però, ci eravamo iscritti al campionato e qualche soddisfazione lì avevamo cominciato a prendercela. E pure in Coppa qualche speranza di far bene ce l’avevamo.
Parliamoci chiaro, due vittorie con i portoghesi, che sostituivano la selezione spagnola, erano nelle nostre corde. Sì, erano una selezione, erano i portoghesi più forti, tutto quello che volete, ma noi eravamo superiori. Si può arrivare terzi, ci dicevamo, ma non di più.
London Irish e Stade Français però, se permettete, non sono cosa.
Con gli Exiles prendiamo nove mete al Madejski, 60 a 11. Hanno velocità, forza fisica, sagacia tattica. Tutto. Noi poco. E gli inglesi non fanno mai sconti, sappiatelo. Lo Stade, se non fosse una squadra francese, ci costringerebbe a giocare col pallottoliere. Sono ancora più forti, loro, ma da buona squadra francese che si rispetti considerano la Challenge Cup un buon allenamento o poco più. il Top 14 è più importante. A meno che non debbano per forza fare punti importanti, o a meno che non sia un match a eliminazione diretta. Lì non rischiano. Per scendere al Chersoni, quindi, decidono di far rifiatare alcuni dei loro migliori giocatori.
Lo hanno già fatto l’anno scorso, d’altronde. Solo che l’anno scorso riuscimmo a metterli in difficoltà. Segnammo una delle mete più belle della nostra storia, con Billy Ngawini che danzava nel fango e nessuno di loro che riusciva a capire che musica avesse in testa. Certo che la vinsero, e vinsero pure il ritorno, faticando come bestie per portare a casa il punto di bonus. Certo, noi Cavalieri mettemmo insieme due partite molto buone, ma pure loro decisero che contro una onesta squadra dell’Eccellenza italiana non dovesse essere usato il massimo potenziale a disposizione.
A ben vedere hanno tutta la voglia del mondo di rifare l’esperimento, quest’anno. Certo, qualche nome grosso l’hanno portato. Pape, per esempio. O Slimani, oppure Porical, l’estremo che giocava a Perpignan. David Lyons. Nomi grossi, nomi di calibro. Noi, invece, non siamo più quelli degli anni scorsi. Tanti se ne sono andati, chi all’estero chi dove gli veniva garantito uno stipendio migliore. No, non siamo più la squadra che è arrivata ad un fischio dallo scudetto. Però non siamo male. È tornato Von Grumbkow, per la gioia del Nuti, il nostro speaker. È rimasto Nifo, un fenomeno in seconda. E poi siamo in Challenge, cosa che da queste parti, da quel pomeriggio di ottobre del 2010, ci fa respirare un’aria diversa. Non abbiamo preparato la partita come tre anni fa, ma ci sentiamo addosso la stessa serenità, lo stesso zaino vuoto di responsabilità che indossavamo quel giorno. Carlo, il nostro coach, ci ha detto di stare tranquilli e vedere come va. Loro, a dirla tutta, sembrano proprio in vacanza. Svogliati, presuntuosi. Sembra che stiano provando le giocate in vista di altri impegni più probanti. Noi ci siamo, facciamo il nostro. Non siamo fenomeni, ma per il momento non passano. Loro non accelerano, noi facciamo di tutto per non farglielo fare. Poi, però, succede il patatrac: Bernini tira una testata in ruck ad un avversario, l’arbitro lo vede e gli sventola in faccia il cartellino rosso. Restiamo in 14 e abbiamo ancora un’ora di partita davanti.
E però non si svegliano.
Restano lì, provano le giocate, ma non vanno oltre. Anche perché noi nel frattempo stiamo placcando qualsiasi cosa. Passiamo anche in vantaggio con un piazzato di Browne, estremo e apertura australiano arrivato dal campionato locale. Il primo tempo finisce così, con soli tre punti a referto. No, non si sono ancora svegliati dal loro letargo, ma dobbiamo approfittarne di più. Browne segna ancora, loro latitano.
Almeno fino a quando Arias riceve un calcio alto di Browne. La nostra difesa sale male e l’ala francese tira dritto. Si fa 50 metri di corsa, ma non si accorge che Pino Patelli, il nostro numero 9, gli mette le mani sulla palla, che cade in avanti. L’arbitro ci concede il vantaggio, l’ovale finisce in mano ad Abu. Abu Souarè. È arrivato quest’estate da Viadana. A prima vista sembra leggerino per questi livelli, ma vi assicuro che è solido.
E, soprattutto, corre come una lepre.
Si accorge che due avversari, l’apertura e uno dei due piloni, lo stanno attendendo da fermi. Lui cambia passo, non riescono nemmeno a toccarlo. Quando qualcuno dei francesi prova a inseguirlo si rende conto che è troppo tardi per fermare quel tipo di garretti, è meta. Il Chersoni esplode: manca mezz’ora, lo Stade non ha ancora segnato un punto e siamo avanti di tredici punti.
È lunga, è lunghissima ancora, con la squadra che hanno possono farci due mete in due minuti, sì, ma prima devono cambiare marcia. E mica è facile cambiare marcia, adesso, nemmeno se ti chiami Stade Français. Se n’è accorto pure Pascal Pape, che lo vedi che è parecchio incazzato. Era già stato ammonito nel primo tempo per un pugno in faccia a uno dei nostri, chissà cosa sarebbe successo se qualcuno avesse avuto del coraggio in più nel taschino. Sente la frustrazione serpeggiare, a lui e ai suoi non riesce nulla. Pure in panchina non riescono a capacitarsi di ciò che succede. Come può una squadra di quel calibro, con quel budget, restare a 0 punti per un’ora contro uno discreto sparring-partner e nulla più? Il più allibito di tutti è il preparatore atletico, proprio non si spiega quel che sta succedendo. Dalla panchina lo si vede agitarsi e usare tutta la prossemica che può appartenere ad un francese appena resosi conto di essere nel bel mezzo di un incubo.
Sta di fatto che però, a poco a poco, la partita cambia. Si rendono conto che davanti cominciamo a soffrire l’inferiorità numerica, che la nostra mischia potrebbe essere attaccabile. Si agganciano lì e ci portano a spasso finché l’arbitro non concede loro la meta tecnica. Mancano venti minuti, adesso è dura. Carlo, il mister, mi fa entrare. La parola d’ordine è tenere duro. Sfruttare il minimo errore. Facile, vero? Proviamo a giocare il più distante possibile dalla nostra metà campo, ma stiamo perdendo lucidità poco a poco. Lo Stade riparte dai suoi 22 con un drop lungo, che non è la scelta più ortodossa se devi rimontare e pure alla svelta. Ci regalano il pallone. Majstorovic praticamente leva Pino di sotto e riceve l’ovale. Non è che ci pensi troppo, prova il drop. Denis non ha nel mirino la sua arma migliore. È un signor centro, quando si mette in moto è duro da fermare, ma quei piedi mica li ha usati tanto spesso per calciare. Giusto in allenamento, toh.
Oh, fanno 50 metri abbondanti di drop, in mezzo ai pali. Quel che non era venuto giù prima va a terra in quel momento. Sedici a sette, siamo oltre il break e mancano meno di dieci minuti.
Loro si guardano. Non sono certo nel loro miglior momento storico, non sono nella loro miglior formazione e ad occhio non stanno nemmeno vivendo il miglior pomeriggio della loro vita.
Però, per sfortuna nostra, sanno mettere in piedi queste partite.
Accorciano con Porical dalla piazzola, poi si ripresentano da noi, mancano 5 minuti. Sanno che siamo stanchi, distrutti, lontani dall’essere lucidi. Per fermarli, ora, ci attacchiamo agli atti di fede. E ai falli, a tantissimi falli. L’arbitro mi sventola il giallo a quattro dal termine, rimaniamo in tredici, poi in dodici, non so chi sia uscito ancora.
E chiedono mischia sui nostri 5 metri.
Ogni tanto ci ripenso a quel giorno. Non avevamo nulla da perdere, la partita era indirizzata dalla parte giusta. La nostra, intendo. E chi l’avrebbe mai detto, dopo tutto quel che ci era successo. Certo che ci diede fastidio perdere in quel modo, nessuno vuole mai veramente perdere, neanche contro gli All Blacks saremmo stai contenti di perdere. Certo che ci diede fastidio il loro preparatore atletico, risorto dalle sue ceneri e particolarmente simpatico nei nostri confronti. Certo, direte, poi abbiamo vinto contro i portoghesi, certo, in Francia al ritorno ci siamo fatti rispettare, hanno preso il largo solamente mettendo Parisse e gli altri pezzi grossi. Tutto quello che volete.
Ma quel giorno a Prato stavamo per scrivere la storia.
Come contro il Connacht al debutto. Forse di più.
Qualcuno ci ha rubato la penna sul più bello.
Qualcuno magari più lesto di noi a fare le firme in calce, a mettere la parola fine quando è il caso.
La stiamo ancora cercando, quella penna.
Perché, per quanto belle possano essere, per quanto struggente possa essere il viverle e il riviverle, le incompiute non piacciono nemmeno un po’.
Firmato: un Cavaliere che non ha più bisogno di carta e penna, per ricordare quanto il sogno sia stato vicino.