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Prima regola: un articolo non si scrive mai in prima persona. Me lo hanno spiegato degli amici, giornalisti di professione. Mi domando, però, come si fa a raccontare un esordio? La girandola di emozioni, quell’attesa spasmodica prima della partita, lo stress in panchina e il momento in cui entri in campo, la fitta allo stomaco che sparisce al primo placcaggio?

Cercherò di andare disordinatamente per ordine, come tutte quelle emozioni che, da quattro giorni, mi attanagliano, che rivivo a rallentatore dentro di me.

Quattro giorni perché la prima emozione è la convocazione.

Il venerdì, quando leggi il tuo nome sulla bacheca, senti un fortissimo stordimento e pensi: “oddio ce l’ho fatta! Allora il “culo” fatto sul campo, le strigliate, le botte e il sudore sono serviti!” Impazzisci, ti inorgoglisci, cammini per aria, anche “bullescamente”. In fin dei conti ora sei un giocatore vero di rugby, adesso spacco tutto. Poi pensi, rifletti e scrivi subito al tuo capitano. Lo ringrazi anche dei calci in culo che ti ha dato, perché, se sei lì, lo devi anche a lui, che non ti ha mai mollato in allenamento. Ringrazi l’allenatore, i compagni di squadra e pure il barista sotto casa.

Il sabato è l’attesa. La tua compagna ti chiede “come va? sei nervoso per domani?” E , fintamente, dici di no, ma non aspettavi altro e gli racconti tutto, al punto che lei si pente di averti fatto quella domanda.

La notte vai a letto presto e pensi a tutto quello che dovrai fare in campo. Fatichi ad addormentarti, perché non ti sembra vero.

Poi arriva il giorno della partita. L’incontro con gli altri, battute sbruffone ed un formicolio nello stomaco. Sono le farfalle o qualcos’altro? Guardi quelli intorno a te e ti rendi conto di essere il più vecchio, eppure ti senti un ragazzino.

In macchina si parla del più e del meno. Cerchi di non pensare, scherzi e ridi, poi il campo, gli spogliatoi. Ti inizi a cambiare, la tensione ti brucia come una fede al color bianco. E infine una sequenza di emozioni indescrivibile: il discorso dell’allenatore, la consegna della maglia che ti da il capitano (che poi è l’amico che ti ha portato al campo), il suo abbraccio. Da quel momento ti senti caricato di responsabilità, senti il peso di quella maglia, ma che gioia, cinque mesi di duro lavoro.

Poi riscaldamento, esercizi, prove di gioco.

L’arbitro fischia. Il campo è pessimo, più che una partita sarà uno scontro di wrestling nel fango, pensi. Inizi a seguire il match, ti arrabbi e trepidi, ma capisci che è diverso che farlo dagli spalti. Ti senti nel vivo del gioco. Osservi quelli dell’altra squadra e pensi: “oddio quanto sono grossi”. Se il numero 3 mi cade addosso mi ritrovano? ; “e la terza centro? se gli sbatto addosso il chirurgo mi ricostruirà la faccia?”. “Ma chi diavolo me lo ha fatto fare? ho 41 anni!. Mica sei un ragazzino? le botte te le porti per giorni!”. Ma anche la voglia di entrare in campo e di farti valere, di sostenere i miei compagni.

Poi ti chiama il coach. Sudore freddo, la pelle si fonde con la maglietta… responsabilità. Un po’ di riscaldamento e poi esce un compagno per infortunio. Non ho il tempo di capire e sono già in campo. Un minuto e sono a terra nel fango, e capisco solo una cosa: anche quelli dell’altra squadra sono di pelle e ossa, e le paure passano, non c’è tempo più per pensare . Mi vengono in mente tutte le raccomandazioni e gli allenamenti,le cose provate e riprovate mille volte. Vai a schierarti in linea, corri, placchi. La prima palla che ti arriva sai che devi sfondare, andare avanti cercare di guadagnare centimetri, metri . Corri a dare sostegno a ogni compagno che cade; il sostegno, il senso del rugby. Senza sostegno non c’è squadra, è la cosa che più mi ronza nel cervello, poi gli errori e le cose che non ti vengono, le posizioni sbagliate, i consigli dei compagni, ma non ti fermi, non puoi, c’è un altro pallone da conquistare. Il fango è dappertutto, ma cosa importa, ti senti anche un pòun bambino che si rotola nel fango, e cosi via fino al fischio finale.

A fine partita i saluti, lo spogliatoio ,il discorso del coach. Stavo per piangere dal nervosismo, la tensione di tre giorni. Mi sentivo di non aver dato niente in campo, di aver tradito le attese. Poi i compagni ti abbracciano, ti calmi, ti rilassi, sei li con loro e per loro.

Il terzo tempo. Le prime battute, la prima sigaretta da ore e poi il viaggio di rientro. Tre emozioni si manifestano forti in me: la gioia dell’esordio, il rammarico per non aver iniziato prima a giocare a rugby e la paura della mia compagna di fronte al borsone pieno di panni sporchi e infangati all’inverosimile. Una sola certezza: a sto giro mi butta fuori di casa!

Poi la sera con gli amici, una birra e festeggi. La gente ti accoglie come un eroe, pensa che cosa straordinaria hai fatto. Strana sensazione, eppure lo fai tutte le volte in allenamento, però, stavolta, sai di essere l’eroe della serata. Mostri graffi ed ecchimosi, medaglie di una grande giornata, beh sentirsi fughi è bello!

Mi sento di dover ringraziare sopratutto la mia compagna perché mi ha spinto a intraprendere questa avventura e credendo per prima in me, ma anche gli allenatori e tutti i miei compagni di squadra.

E il quarto giorno ?

I dolori che temevi, stranamente non ci sono, ma dentro hai una voglia di andare al campo, di ararlo e di riguadagnarti la gioia di una maglia, sapendo che dovrai dare, d’ora in poi, sempre di più, voglioso di rivivere nuovamente la gioia di un’altra convocazione. Un’emozione infinita da rivivere ogni domenica.