“Voglio vincere contro gli All Blacks, li voglio battere e la squadra che scenderà in campo sabato è stata costruita proprio per questo motivo”.
Parole e musica che solo in pochi, al mondo, possono mettere giù con discreta disinvoltura.
Jake White, per esempio.
Eddie Jones di sicuro.
A dirle invece è un neozelandese, ex All Blacks, molto bravo a caricare le sue squadre. Da un paio di anni siede sulla panchina della nazionale italiana, si chiama John Kirwan e crede ciecamente in una clamorosa prestazione dei suoi al Flaminio. Corre l’anno 2004. Non è che la sua opinione sia così condivisa, nonostante una bella vittoria sul Canada a L’Aquila sia lì a testimoniare una bella crescita del gruppo.
Sa anche lui che, in fondo, non è cosa.
Ci vorrebbe un’impresa fuori dal normale, qualcosa di mai visto nel pianeta ovale. Ci crede però, da buon inguaribile ottimista, e invita la gente allo stadio. Dice che al Flaminio gli azzurri avranno bisogno di tutti i tifosi possibili, di tutto il calore del mondo.
Bastasse quello, qualche partita in più l’avremmo anche vinta.
Il suo dirimpettaio, l’altro allenatore, preferisce dichiarazioni di profilo più basso, quasi da padre di famiglia. Dice che i suoi devono dar tutto, che i centri italiani sono forti, che gli azzurri ci mettono passione sempre e comunque.
Diavolo di un Graham Henry.
Uno dei più grandi guru del rugby dell’ultimo mezzo secolo si è seduto sulla panchina più calda del mondo da un annetto, ha sostituito John Mitchell, creatore di una squadra spettacolare e sfrontata, ma tradito sul più bello da uno scarabocchio del suo Raffaello.
Si è seduto in panca e, in vista del Tri Nations, ha cambiato poco. Da buon nuovo padrone vuole cambiare poco a poco e si tiene qualche modifica di quelle belle per novembre. Dan Carter, per esempio, che passa all’apertura. Con questo spostamento ha inizio uno strano fenomeno migratorio di ottimi numeri dieci neozelandesi in giro per il mondo, ma questa è un’altra storia.
Per il match di Roma Henry fa debuttare quattro giovinastri, tutti promettenti. Qualcuno diventerà un marinaio, nel senso che non manterrà. Steven Bates, per esempio, numero 8 dei Chiefs che metterà in carniere quel cap e poi via a svernare in Giappone. O come Saimone Taumopeau, pilone dei Blues, che arriverà a collezionare tre presenze, ma che dalla fine del tour in poi la felce sul petto la vedrà da distante. Si creerà una discreta carriera in Francia, ma lontano dal gotha. Jimmy Cowan, che vincerà pure una Coppa del Mondo, quella del 2011. Ne manca uno.
Perché se sposti Carter all’apertura gli equilibri tra i centri cambiano. Henry sposta Tana Umaga, nuovo capitano e padrone indiscusso da anni della maglia numero 13, a primo centro. La velocità di punta e le movenze del felino incazzato non sono più quelle di una volta, è vero, ma il carisma e la potenza sono intatte e allora lo tieni lì. Non puoi farne a meno.
Se però metti un mammasantissima come lui a 12 sparisce di fatto Sam Tuitupou, centro di un certo peso dei Blues e padrone da un annetto di quella maglia. Due giocatori con quel peso e con mani non propriamente morbidissime insieme non potrebbero dividere un bilocale, figuratevi i posti nella cerniera dei centri più forte del mondo.
Henry, però, ha già visto e previsto tutto e ha convocato un ragazzino in forza agli Hurricanes. Ventitré anni, solo uno in Super 12. È leggerino, nelle statistiche gli vengono attribuiti 95 chili, ma Umaga sembra obiettivamente la sua custodia. Nei test dimostra delle ottime capacità da mezzofondista, ma non è il più veloce della compagnia.
Né al piede è un fattore.
E però Henry si è innamorato.
E se uno come Henry si sbilancia vuol dire che sta per succedere qualcosa.
Al Flaminio bastano meno di due minuti per capire quasi tutto: buco di Carter e passaggio. A rimorchio arriva il numero 13 con un angolo mostruoso. Nitoglia e Robertson, le ali italiane, sarebbero più veloci, ma partono praticamente da ferme e non lo possono recuperare.
Meta di Conrad Smith.
Il match non è nemmeno divertente, gli azzurri beccano tre mete nei primi dieci minuti, ma la strada è segnata: quel numero 13, quello bianco su fondo nero, ha trovato un degno padrone. È bella la storia di Smith, che con quel cognome e quel fisico così a prima vista comuni fa veramente credere a tutti che arrivare a certi livelli ovali sia accessibile anche a chi si deve pesare con i piombi nelle tasche.
Non è così, però, fidatevi. Graham Henry ha capito al volo che quel ragazzino non è come tutti gli altri. Lo conosce sin dai tempi di Taranaki, dove Conrad si è fatto tutta la trafila delle giovanili. È forte, fortissimo, fa la differenza a tutti i livelli ma non sembra eccellere in qualcosa di particolare.
Piano.
Smith, oltre ad essere una grande promessa ovale, si destreggia bene pure nel cricket, sport che gli regala “Snakey”, il suo soprannome storico, regalatogli da chi lo ha visto più volte in campo essere sinuoso e letale come un serpente. Ma non è solo questo: il cricket, dirà ripetutamente il diretto interessato, è uno sport crudele e che ti costringe a tenere sempre il cervello acceso.
Attivo, possibilmente.
Devi pensare alle varie strategie, ai movimenti avversari, a te stesso. Ne viene fuori un umano dal fisico sì più terrestre di altri, ma di una intelligenza per il gioco che è rivoltante. Ha una capacità mostruosa di intuire sempre e comunque dove e come il gioco proseguirà, è di fatto due o tre fasi avanti a tutti. È l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, e Henry (ma pure John Kirwan, cacciato qualche tempo dopo, forse sul più bello) per uno così farebbe carte false.
Non gli servono, Conrad Smith ha una dannata voglia di non lasciare per strada la sua maglia numero 13. Nessuno in quel momento vuole realmente toglierla, né nessuno dei suoi diretti contendenti ha le capacità per farlo. A ben guardare certe formazioni, come inamovibilità la maglia nera numero tredici sta sul podio dietro solamente alla numero 10 e alla numero 7. Gli toccherà però vederla addosso a qualcun altro già nel 2006, visto che si rompe tibia e perone in allenamento. È un infortunio grave, da cui in molti sono usciti con un pugno di mosche e con qualche sogno infranto. Conrad torna invece già a novembre e segna ancora al debutto, contro la Francia, pronto per giocarsi un posto per la Coppa del Mondo.
Di fatto la maglia numero 13 ce l’ha già in tasca, la convocazione arriva, gli All Blacks sono pronti per conquistare il mondo dopo vent’anni di digiuno. La Coppa del Mondo inizia bene, i neozelandesi in tutto il girone beccano 35 punti, insufficienti per sconfiggerli neppure se sommati e messi a segno in un unico match.
Poi però arriva la Francia.
Smith non gioca, Henry lo tiene caldo per la semifinale e gli preferisce Mils Muliaina. Mai sottovalutare i francesi, sapete tutti come va a finire. I neozelandesi lo imparano una volta di più e danno appuntamento alla Webb Ellis Cup per il 2011, anno in cui ospitano il torneo.
Smith è titolare a furor di popolo, non serve nemmeno dirlo. Henry già a partire dal 2008 decide pure di non lasciarlo solo, regalandogli la presenza al suo fianco del suo compagnuccio di cerniera agli Hurricanes, Ma’a Nonu. Nonu è quello che Smith ha sempre ardentemente desiderato sin dai tempi del suo debutto: un centro forte, grosso, con un punch mostruoso e una capacità di rompere i placcaggi fuori dal comune. Al suo fianco, a leggere le linee di corsa e a seguire i break del suo compagno, Conrad spadroneggia incontrastato. Henry in panchina si sfrega le mani, visto che regalerà alla sua Nazionale quella che probabilmente è la più forte e meglio assortita coppia di centri del mondo insieme a quella irlandese. Certo, perché anche in questo emisfero c’è un numero 13 che è un fenomeno, si chiama Brian O’Driscoll, e insieme a D’Arcy formerà un’altra accoppiata mica da ridere. Ma permetteteci di dubitare sul fatto che le competitività per ruolo in nuova Zelanda e in Irlanda, a quei livelli, fossero simili. La Coppa del Mondo giocata nel giardino di casa li vede partire fortissimo come sempre, ma uno dopo l’altro si bloccano Carter, Slade e Cruden. La finale contro la Francia è agonica, una meta di Woodcock sembra mettere tutto a posto, ma quelli giocano, non sono più quelli del girone. La Coppa però è nera per la prima volta dal 1987. E, cosa ancora più importante, gli All Blacks gettano le basi per un dominio incontrastato negli anni a venire. Cambiano gli allenatori, Henry lascia il posto a Steve Hansen. E vuoi perché Hansen altri non è che l’ex assistente di Henry, vuoi perché di professione era un signor centro a Canterbury, quella cerniera lì neanche si sogna di toccarla. Smith è sempre più padrone del campo, a Roma nel 2012 ci fa ancora malissimo dopo pochi minuti, leggendo un tempo che noi nel nostro spartito proprio non avevamo, Mar Rosso aperto e meta di Read in mezzo ai pali. Si prende un semestre sabbatico nel 2013, ma nessun bipede ovale riesce ad infastidirlo nella lotta per la maglia. No, fino al 31 ottobre del 2015, giorno della finale della Coppa del Mondo inglese.
Quella data in Nuova Zelanda se la segnano in tanti, è praticamente la fine di una generazione stellare: dopo la finale, infatti, andranno in Europa Dan Carter, Ma’a Nonu e Conrad Smith, tutti diretti in Francia, mentre Richie McCaw, Tony Woodcock e Keven Mealamu appendono definitivamente le scarpette al chiodo. Prima, però, mettono in atto un’ultima recita da ricordare: faticano terribilmente contro i Pumas all’esordio, poi arrivano a brutalizzare la Francia ai quarti. In semifinale, oh, gli Springboks non saranno al loro meglio, ma mai si erano visti così guerrieri a quei livelli. Si va comunque in finale contro la bellissima Australia di Michael Cheika. I Wallabies hanno rischiato grossissimo ai quarti contro la Scozia, ma hanno battuto i Pumas scoprendo un cinismo che solo apparentemente non avrebbero mai potuto avere in faretra. Non è cosa però, i neri vanno avanti 21 a 3. Perdono però l’altro Smith, Ben, per dieci minuti, gli australiani tornano sotto. Solo che Dan Carter ha deciso di andarsene come si deve, da gran signore, e allora spara un drop e un calcio praticamente da casa sua.
Chiude Beauden Barrett, la faccia furba e scanzonata di una nuova generazione se possibile ancora più temibile, ma questa è un’altra storia.
A Twickenham una generazione lascia il posto ai giovinastri. E se al momento i vari Sam Cane o Beauden Barrett stanno dimostrando di saper essere degni dei loro avi, quella maglia numero 13 ancora non ha un padrone designato. Se la giocano in tanti: ci sarebbe Anton Lienert-Brown, fisico pazzesco e mani e cervello da socio MENSA. Oppure Ryan Crotty, anche lui incredibile nel trovare buchi. Jack Goodhue, forse il più accreditato tra questi. Ma è un dato di fatto che chiunque indossi quella maglia senta qualche peso in più della media. Magari perché risuona ancora nell’aria quel 90% di partite vinte (100% per quel che riguarda la Coppa del Mondo), percentuale abnorme, se si considera che stiamo parlando di un giocatore che ha vestito per 94 volte la maglia più importante e pesante del mondo, quella nera con la felce argentata. Magari perché la cerniera di centri che ha vinto gli ultimi due mondiali ha totalizzato una convivenza lunga 63 giornate da ottanta minuti ciascuna. O magari perché chi ti ha preceduto non avrà avuto tutto ‘sto fisico, tutto ‘sto placcaggio o tutto ‘sto piede (sempre parlando a livelli assoluti eh), ma ha saputo essere sempre l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto. Lì, in mezzo al campo, sempre sinuoso e letale come solo un serpente potrebbe.
Un serpente o Conrad Smith.
Decidete voi chi vorreste sfidare in campo aperto.
John Kirwan, da quattordici anni a questa parte, non ha grossi dubbi.
Nemmeno noi, se permettete.