A volte sembra che il destino sia un “genio maligno” come avrebbe potuto sostenere Cartesio. Ci sono giorni in cui non vuoi pensare, in cui sei perfettamente a tuo agio tra una Rivoluzione Francese ed un Giudizio Estetico kantiano, giorni in cui non ti sfiora nemmeno lontanamente l’idea del rugby. O forse è solo un’illusione, perchè se sei un rugbista vero, sai benissimo che non esiste giorno in cui non porti con te l’idea di quel “maledetto” pallone ovale e di tutti i suoi astrusi rimbalzi.
Il lunedì se giochi o alleni è giorno di emozioni, di riflessioni, gioie o delusioni amare. E’ il giorno in cui ripensi ad ognuno di quei rimbalzi e scopri che in fondo sta li il valore del sentirsi vivo.
Così mentre Kant mi riporta al valore del “Tu Devi” come imperativo categorico assoluto (Kant sarebbe stato un grande allenatore, secondo me), la mia mente ballerina fugge via da quelle pagine di concetti complicati e mi riporta come una farfalla impertinente a quei pensieri che sanno di terra.
Postulati della Ragione Pratica, dovrei concentrarmi su quello che sto spiegando, ma oggi non mi riesce proprio. Postulati, si chiamano così ed è proprio questa parola che mi porta via dalla mia apparente indefinibile voglia di non pensare al rugby.
C’è uno strano postulato che appartiene alla nostra società, che non appartiene al mio essere ma che oggi sorride brutale e mi insegue, mi placca mi toglie il pallone e mi fa male, quel male che il fisico assorbe rapidamente, ma l’anima… Già perchè i rugbisti anche se non ci credete un’anima ce l’hanno ed è tanto grande quanto le loro braccia ed il loro sorriso.
L’accettazione della sconfitta è il postulato assoluto attraverso il quale passa la costruzione di un uomo o donna di rugby. Ma che valore ha una sconfitta? Se un brutto giorno ti fai vedere in difficoltà, se denunci una tua sconfitta professionale, se dichiari di essere in crisi con il tuo lavoro sul campo e, peggio che mai, di aver perduto la direzione, se insomma proclami un tuo momento di debolezza, scattano una serie di cose che invece di organizzare rapidamente una reazione per trovare soluzioni ai problemi del singolo o del gruppo, tendono irrimediabilmente all’emarginazione dell’individuo. E’ un po’ come se la squadra non ammettesse mai la sconfitta, come se il tanto decantato sostegno valesse solo all’interno del campo e venisse meno proprio nel momento del maggior bisogno del suo singolo componente. Ogni giocatore, ogni giocatrice, ogni allenatore sanno di appartenere pienamente e dignitosamente alla propria squadra solo fino a quando riescono a rappresentare tutti i valori su cui la squadra stessa si basa, primo fra tutti il lavoro condiviso. Ognuno di loro sa anche che, appena questo dovesse venire a mancare, scatterebbero una serie di meccanismi spietati, che possono forse riassumersi in una sola parola: sconfitta.
La mia idea è che si può perdere anche quando si vince e si può vincere anche quando si è battuti. Ho avuto questa sensazione in alcune occasioni, varie volte, guardando le mie giocatrici in campo. Volevo solo che fossero capaci di tenere alta la testa dopo una partita. Questo è ciò che conta realmente: se ti sforzi di fare il meglio che puoi con regolarità i risultati saranno più o meno quelli che dovrebbero essere. Non necessariamente quelli che si desiderano, ma più o meno quelli che dovrebbero essere. Solo tu saprai se lo puoi fare.
Cervantes scriveva: “Il viaggio è meglio della meta”, forse è vero. Talvolta quando ci arrivi a quella benedetta meta, c’è quasi un po’ di delusione. E’ li che capisci, o almeno dovresti che il divertimento è arrivarci. Si tratta di portare le giocatrici a quella soddisfazione personale nel sapere che si sono sforzate di fare il meglio di cui sono capaci.
Esaltare il valore dell’avversaria, riconoscerne qualità e meriti, apprezzarne la bellezza e l’efficacia del gesto, la tenacia e la virtù, è il primo, seppur difficile, itinerario da percorrere.
Enzo Bearzot, uomo che ho sempre stimato moltissimo una volta ha detto: “Il bello della sconfitta sta innanzitutto nel saperla accettare. Non sempre è la conseguenza di un demerito. A volte sono stati più bravi gli altri. Più sei disposto a riconoscerlo, quando è vero, quando non stai cercando di costruirti un alibi, più aumentano le possibilità di superarla. Anche di ribaltarla. La sconfitta va vissuta come una pedana di lancio: è così nella vita di tutti i giorni, così deve essere nello sport. Sbaglia chi la interpreta come uno stop nella corsa verso il traguardo: bisogna sforzarsi di trasformarla in un riaccumulo di energie, prima psichiche, nervose, e poi fisiche.”
Allora penso io, forse è qui che che la sconfitta diventa un valore utile, che crea donne o uomini ancor prima che rugbisti ed è giusto così, perchè il valore di ogni vittoria che insegui sul campo, sta nel suo “opposto” e nel suo “limite”.
Proprio questo rende tutto il nostro mondo così speciale, esattamente tutto quello che non ci piace: la sconfitta, la sofferenza, il dolore e la frustrazione, perchè sul campo di queste sensazioni ne proverete a bizzeffe ed è così, non si può farci nulla, quasi un assunto di necessità kantiana.
Se voi togliete tutti questi “opposti”, e questi “limiti”, scoprirete che scendere in campo a fianco delle vostre compagne non ha alcun senso, alcuna ragione di essere. Il gusto è dato tutto dalla paura di non riuscire, dalla speranza di riuscire e solo in parte molto piccola dall’attimo in cui tutto ciò che abbiamo voluto, desiderato, o semplicemente sognato, finalmente riesce.
Il rugby ha senso solo così, tutto in un attimo, nell’incertezza, nel desiderio e nell’attesa. Che buffo mondo…
Ho perso tante volte nella mia vita, e quante altre volte perderò. Il mio meglio, ammesso che ce ne sia, mi è sembrato venire a galla proprio così. Qualche volta però mi piace anche vincere, ottenere quello che forse ho meritato, guadagnato, con il lavoro, il sacrificio, la coerenza verso quello che sono e quello in cui credo. Ma non voglio vincere sempre, non mi interessa. Voglio provare quel brivido, quello che è possibile provare solo una volta ogni tanto, quello che può arrivare solo dopo qualche amarezza, delusione, sconfitta. Quello improvviso, inaspettato, che dura lo spazio di un attimo, e poi finisce. Così, perfetto, senza un motivo, e senza pietà.
Lorenzo Cirri
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