In effetti c’era qualcosa che non andava. Tutti lo sapevamo, ma nessuno/a affrontava mai l’argomento. Certo, erano altri anni, ma con il senno di poi avremmo potuto fare molto di più. Siamo negli anni…lasciamo perdere che è meglio. Una squadra di rugby femminile sta iniziando la sua attività sul campo tra entusiasmo e tanti (troppi) allenamenti. Al campo ci sono tutte le più diverse appassionate di questo sport:

  • studentesse
  • lavoratrici che vogliono sfogarsi
  • mogli stufe di fare le casalinghe
  • mogli stufe di fare le imprenditrici
  • la panettiera del paese
  • la macellaia del paese
  • la poliziotta
  • la figlia del custode del campo
  • quella che tutti definivano “la matta” (in realtà persona di innata intelligenza)
  • le fanciulle emarginate
  • le ragazze silenziose
  • Lucia

E proprio di Lucia voglio e devo parlare. Lei era una di quelle grandi appassionate dello sport in generale, che aveva trovato nel rugby la sua casa sicura. Era sempre sorridente. Sempre. Affrontava tutto con quel piglio diverso, con quell’entusiasmo coinvolgente che ad un gruppo/squadra che si sta formando è quasi indispensabile. Lei organizzava i terzi tempi, coinvolgeva le ragazze nuove, ascoltava quelle più grandi nelle discussioni più assurde. Era davvero tutto. Man mano che, poi, la squadra maturava, sportivamente parlando, lei migliorava in maniera splendida. Poi, era febbraio, il suo comportamento iniziò a cambiare. Mutare. Divenne più silenziosa, meno espansiva. Insomma, non più la Lucia di prima. Io provai a capirla, ma lei mi rispondeva sempre “Tranquillo coach, solo un po’ di stanchezza”. Ma anche in campo non era più quella di prima. Niente più scatti veloci, sempre meno voglia di fare contatto. La vita di squadra quasi completamente azzerata. Intervenne allora il capitano, poi il presidente, poi tutte le ragazze del team. Ma nulla. Lucia non si lasciava andare e sorrideva a tutti. Ma, cazzo, quegli occhi erano tristi. Sempre velati di lacrime. Il tempo passava e le assenze aumentavano. Così, inevitabilmente, cercai di intercettarla a casa. Mi apri la porta quello che capii essere il suo “ragazzo”. Che cercò di minimizzare la cosa e, nonostante chiesi di parlare con lei, mi disse che stava dormendo. A quel punto tutto mi fu chiaro. Mi confrontai con il capitano, la poliziotta, che mi disse di stare tranquillo. Che avrebbe provato lei a parlare a Lucia. In quei casi era meglio affrontare la cosa in maniera “soft”. Il tempo, tuttavia, passava e Lucia sembrava fosse sparita dalla faccia della terra. La si vedeva andare al lavoro, sempre solitaria, sempre di fretta. Tutte le ragazze, intanto, l’avevano cercata per capire cosa stesse succedendo. Ma lei rispondeva sempre: “il lavoro, amiche mie!!! Il Lavoro!!! Prossima settimana prometto che torno!”. Ma non tronava mai. E alla fine non tornò più. Erano altri fottuti tempi. Di certe cose non si parlava. Si faceva fatica a parlare. Ci si sentiva quasi in colpa. Quella mattina mi ero alzato “con il piede sbagliato”. Avevo capito subito che sarebbe stata una giornata negativa. Ma non pensavo così tanto. Alle 7.05 Maria, il capitano mi fermò mentre stavo andando a bere il caffè al bar in bicicletta. Lei smontava dal turno di notte. Mi abbracciò. Piangendo. E io capii che il presentimento che avevo era diventato realtà. Tra le lacrime mi sussurrò: “L’ho arrestato, ma sono arrivata tardi. Scusami. Dovevo lasciarti intervenire prima”. Io la strinsi e non dissi nulla. Nulla. Salii in bicicletta e iniziai a pedalare. Arrivai nel bar dove bevevo sempre il caffè e vidi tutte le ragazze che mi aspettavano. Nessuna parlava. Il senso di colpa per non essere intervenuti e non aver capito prima lacerava i cuori di tutte le giocatrici. Non so se fossimo intervenute prima se qualcosa sarebbe cambiato. Non lo so. Ma questo è un qualcosa con cui abbiamo provato a convivere per il resto della vita. Il colpo di grazia, poi, arrivò quando la sorella di Lucia ci consegnò una lettera, il giorno prima del funerale. Lucia aveva voluto, a suo modo, spiegarsi.

“Amiche mie (e coach) questo mio essere sparita non è colpa vostra. Purtroppo a volte, nella vita, si fanno scelte sbagliate. Inconsapevolmente. Il mio ragazzo, diciamo, che non mi tratta poi così bene. Ma giuro che proverò ad uscirne. Ho amato il vostro cercare di starmi vicino, in maniera dolce. Avrei voluto dirvi tutto. Giuro. Ma mi sentivo in colpa e poi so che la Mariella avrebbe sfondato la porta di casa e lo avrebbe rotto in due. E volevo evitarle una denuncia (anche se ho sperato tante volte lo facesse). Ragazze, vi voglio bene. Mi mancate e spero di uscire da questa situazione. Ma voglio farlo da sola. Coach, a te va tutta la mia stima. So che ahi capito subito. So che avresti voluto. Lo so, ma è come in campo, quando mi dici che devo giocare con la squadra. Ora ho capito. Ora so che devo contare sulle altre. Ma forse è troppo tardi. Vi voglio bene. tanto”.

Abbiamo giocato anche per lei. La ricordiamo sempre. Ma da Mariella, fino a me, il rimpianto di non essere intervenuti nettamente è un qualcosa che ci porteremo dentro per sempre.

In questa giornata un ricordo da condividere, per dire NO alla violenza sulle donne.

@davidemacor