Certo che me lo ricordo, quel giorno allo stadio. New Plymouth, Taranaki Stadium, settanta chilometri da Hawera, casa mia. Una scampagnata con gli amici, una partita di rugby e un bel po’ di birre. E chi se lo dimentica?
La Coppa del Mondo a casa è qualcosa che bisogna vivere, prima o poi. Non ci riuscii nel 1987, avevo solo due anni, neanche sapevo cosa fosse il rugby. A ventisei anni appena compiuti, se ti piace vedere quella palla ovale girare da una parte e l’altra del campo, è quasi un obbligo morale esserci. Certo, è uno Stati Uniti-Russia, non certo una finale, ma l’atmosfera è incredibile: i russi sono al debutto, gli americani cercano quella che forse sarà l’unica vittoria del loro torneo. Qualcuno di noi, forse, laggiù in campo, potrebbe anche starci bene, visto il livello, ma per adesso va bene così.
Certo che mi piacerebbe giocarlo, un Mondiale. Certo che vorrei essere laggiù, nel verde.
E magari guardare in alto.
Ma se nasci in Nuova Zelanda devi avere veramente qualcosa in più, per partecipare ad una Coppa del Mondo di rugby. Devi essere un fenomeno, e nemmeno allora è detto che sia facile. A pochi chilometri da casa mia di semidei ne sono nati un paio, tali Conrad Smith e Kieran Crowley, due che con gli All Blacks ci hanno giocato molto e bene.
Io, Michael Wiringi, non sono a quel livello.
E mai lo sarò.
Ma darei tutto per essere lì, sul campo, a giocarmi un Mondiale.
Volete ridere? A dir la verità all’inizio nemmeno ci volevo giocare a rugby.
Ero partito da casa mia per diventare un personal trainer, uno di quelli che vi tiene d’occhio in palestra e che vi sgrida se esagerate coi carboidrati e con la birra. Andai a Northland, poi però la palla ovale ebbe la meglio. Mica ero tanto male, visto che arrivai fino alla seconda squadra. La prima militava un gradino sotto il Super Rugby, per dirvi. Non ero un drago dalla piazzola, ma gestivo bene ritmi e trequarti.
Poi, però, mio padre si aggravò. Tornai a casa, ricominciai a giocare con la squadra del mio paese. Tornei meno competitivi, stadi un po’ più vuoti, ma andava bene così. Ero riuscito a trovare una palestra in cui lavorare su di me e sugli altri, non stava andando poi tanto male.
Certo, il rugby sarebbe un’altra cosa.
Un giorno, però, ricevo una mail. Avete presente quelle newsletter che vi propongono concorsi, bandi e quant’altro? Qualche tempo fa mi ero iscritto a una di queste. Le squadre inserivano annunci e proposte di assunzione, noi all’occorrenza ci candidavamo. Ecco, in questa mail cercavano un mediano d’apertura, possibilmente neozelandese, possibilmente corrispondente ad un livello NPC B.
Vi ricordate di Northland?
Ecco, Northland militava in NPC. Io ero nella seconda squadra, quindi ci siamo.
Guardo da dove scrivono.
Baia Mare, Romania.
E dove cavolo è ‘sta Romania?
Europa. Vicino al confine con Ungheria e Ucraina.
Squadre agguerrite, dicono. E una Nazionale che alla Coppa del Mondo ci gioca sempre.
Vabbè, proviamoci. Male che vada il mio posto di lavoro ce l’ho, non perdo poi granché.
Mando la mia candidatura. Il tempo passa, il campionato romeno inizia.
Inizia anche la Coppa del Mondo.
Niente.
Ok, ci sto, non ero il profilo adatto. Me ne farò una ragione.
Passano i giorni, il mondiale lo vinciamo noi.
Poi, un giorno, una strana chiamata.
È l’agenzia, devo prendere il primo aereo per la Romania, mi vogliono!
Se non avete mai viaggiato dalla Nuova Zelanda alla Romania, ragazzi, non sapete che vi perdete. Un giro del mondo a stretto contatto col terrore di perdere la valigia, con temperature sempre più fredde e con una grandissima stretta allo stomaco appena si arriva.
No, non è Hawera, decisamente no.
Però i ragazzi e la società mi accolgono bene. soprattutto i ragazzi, Soprattutto dopo che ho scoperto che tutta quell’attesa era dovuta al fatto che, visto che la mia candidatura era l’unica, ai piani alti decisero di pressare l’agenzia affinché rispondesse all’annuncio un numero 10 più giovane.
Niente da fare, si devono accontentare di Michael Wiringi.
Non è che sia andata malissimo, a loro: gioco, mi ambiento, trovo un gran gruppo. Una buonissima mischia e trequarti giovani e guizzanti. Io devo “solo” amministrare. Vinciamo il campionato e facciamo bene anche nelle due stagioni successive.
Sento dire in giro che il mio nome è stato associato alla Nazionale romena. Per i regolamenti mondiali si può fare, sono residente a Baia Mare da tre anni, e infatti in Federazione mi convocano. Me la devo giocare con Florin Vlaicu, molto più preciso di me al piede, e con Dan Dumbrava, una delle bandiere della squadra. Sfortuna vuole che, però, mi rompo una gamba prima dei test, devo saltare tutta la prima parte della stagione. Mi riprendo in tempo per il 2015, anno della Coppa del Mondo.
Ce la metto tutta. Da fuori potrebbe sembrar strano questo far confluire tutte le mie forze verso una maglia che, passaporto alla mano, non dovrebbe toccarmi. Però the Oaks, le Querce, mi hanno dato una possibilità, mi hanno fatto capire che contano su di me, e le possibilità si ripagano. O almeno, si prova a ripagarle.
Alla fine ce la faccio, nel 2015 ricevo la convocazione per la Coppa del Mondo. Credo di non esser mai stato così felice in vita mia. Non gioco contro la Francia, debutto contro l’Irlanda a Wembley.
È incredibile Wembley stipato all’inverosimile, c’è gente ovunque.
Quattro anni fa ero lì, birra in mano e amici al mio fianco, mi godevo l’atmosfera.
Potevo solo immaginare cosa avrebbe potuto passarmi per la mente se mi fossi ritrovato lì in mezzo al campo, pallone in mano, pronto per il calcio d’inizio.
E desiderare di essere lì.
Qui in mezzo.
Potrei dire tante cose ora, pensarne pure di più.
Mi limito a consigliarvi di provarci sempre, e di seguire i vostri sogni ovunque.
Anche a migliaia di chilometri da casa.
E di non fermarvi mai.
Parola di Michael Wiringi, che in romeno sa dire forse due parole.
Una è mulţumesc.
Significa grazie.
Poca roba, ma è tutto quel che mi serve.