A me piace il mare. No, non tanto il mare delle scampagnate, delle domeniche calde e assolate, del luglio che ti scotta e leva la pelle. Non solo quello, almeno, anche perché il mare non è solo quello. Dietro, sotto a quello che vediamo dal bagnasciuga c’è un mondo da scoprire. Mi piace immergermi, buttarmici sotto, vedere come va la vita laggiù, nel silenzio delle profondità.
Il mare per me non è solo schiuma e onde, quella è solo la pelle. Il cuore batte altrove, più in profondità.
È come quando giocavo a rugby: ti innamori di una palla ovale da piccolo, vedendo i grandi campioni che corrono, placcano forte o sfuggono ai placcaggi e schiacciano in meta. Bello, bellissimo, sfido chiunque a dire di essersi avvicinato al rugby per un motivo diverso.
Poi, però, il colpo di fulmine può arrivare anche quando metti la testa dentro ad un raggruppamento.
Almeno, per me è stato così.
Terza linea, non poteva essere altrimenti. Rugby Milano. Una nidiata di amici fuori e dentro il campo, tutti bravi ragazzi, tutti uniti da una palla ovale. E bravi pure in campo. Arrivammo alla spicciolata in prima squadra, uno dopo l’altro. Dicono che io fossi uno dei più bravi, forse per questo fui uno dei primi ad andarmene. Piacenza, sponda Lyons, squadra appena promossa in serie A1. C’era gente come Carlo Orlandi e l’ex All Blacks Arthur Stone, la squadra era buona, riuscimmo a rimanere nella massima serie fino al 1993, anno difficile. Retrocessione inevitabile, si torna in A2. A me andò un po’ meglio, se devo dirla tutta: giocai la mia prima partita in Nazionale, ai Giochi del Mediterraneo.
Arrivammo in finale, ma contro la Francia non ci fu nulla da fare.
Poi mi contattò il Milan.
Che era poi l’Amatori Milano inglobata in una idea di polisportiva che presto sarebbe tramontata.
Quella che all’epoca era la squadra più forte d’Italia voleva me, voleva Massimiliano Capuzzoni.
Non so se rendo l’idea: Massimo Giovanelli, Diego Dominguez, Massimiliano Capuzzoni.
E poi mi avvicino a casa, mi avvicino ai ragazzi. A Michele, Stefano, Mauro, a tutta quella nidiata di under 15 che ci aveva raggruppato e fatto diventare grandi.
Avvicinarmi. E quando mai mi sono allontanato?
No, allontanarsi era impossibile, ogni estate si riunivano gli Alcolizzati, la nostra squadra per l’estate. Andavamo a fare tornei in giro per l’Italia. Tenuta da gioco: il frac. Che era poi una muta da rugby coi colori del frac, ma poco importa. Ci facevamo riconoscere, ci divertivamo, facevamo casino.
Si stava bene insieme.
Ecco, l’unico che avrebbe potuto lamentarsi era il mio conto corrente: Georges Coste mi aveva convocato per un test contro l’Irlanda, tocca pagare. E no, non me la posso cavare con due birrette.
No, direi proprio di no, anche perché Coste pensa bene di convocarmi anche per la Coppa del Mondo in Sudafrica. Avete presente quella Coppa del Mondo in cui vinsero gli Springboks e in cui Nelson Mandela festeggiò indossando la maglia numero 6 di Venter? Quella Coppa del Mondo descritta in Invictus? Ecco, io c’ero. Non giocai un minuto, ma c’ero. Troppo più forti i miei compagni, ma forse un giorno tutto quel ben di Dio – la maglia azzurra, un Mondiale – li avrei visti da più vicino, e allora bene aver vissuto anche quella esperienza.
Me l’ha detto più di qualcuno che vedere quel torneo in prima classe era roba da invidia, ma io mica ci pensavo troppo. Pensavo alla convocazione successiva, questa è la verità.
Ma la Nazionale stavolta non c’entra.
Tutti convocati il sette di agosto in Puglia, il nostro compagno Michele si sposa.
Io ne approfitto per prendermi un paio di giorni in più, me ne vado al mare.
A me piace il mare. No, non tanto il mare delle scampagnate, delle domeniche calde e assolate, del luglio che ti scotta e leva la pelle. Non solo quello, almeno, anche perché il mare non è solo quello. Dietro, sotto a quello che vediamo dal bagnasciuga c’è un mondo da scoprire. Mi piace immergermi, buttarmici sotto, vedere come va la vita laggiù, nel silenzio delle profondità. Il mare per me non è solo schiuma e onde, quella è solo la pelle. Il cuore batte altrove, più in profondità.
Da qualche tempo io e Daniela, la mia ragazza, abbiamo preso il brevetto da istruttore subacqueo. Ce ne andiamo a Taormina col mio Vanette, facciamo un paio di immersioni e poi ci presentiamo in Puglia.
Questo è il piano, almeno.
Ma io in Puglia non arriverò mai.
Resterò a Taormina, a pochi centimetri da un fondale marino. Ci eravamo immersi in cinque, ma ad un certo punto non trovammo più uno dei ragazzi. Lui era già ritornato in superficie, ci aveva ripensato, ma mica lo sapevamo. Tornammo sotto io e l’istruttore, non si lascia indietro un compagno in difficoltà.
Non sotto un raggruppamento come quello.
Non tornammo mai, della sabbia alzatasi improvvisamente ci fece perdere l’orientamento e il fiato.
A galla tornò solamente il fisico, la mia anima era rimasta sotto, trattenuta da un avversario più grande di me. Il più grande tenuto della mia storia, ma poteva bastare un calcio di punizione, signor arbitro.
I miei amici lo seppero quasi subito. Vennero a vedermi a Taormina, poi si precipitarono in Puglia. Avevano capito che io non avrei mai e poi mai voluto che i festeggiamenti di Michele fossero rinviati, per qualsiasi ragione. I ragazzi si sono visti tutti e hanno festeggiato alla grande, poi sono venuti a salutarmi al Giuriati, lo stadio dell’Amatori. Sulla bara le tre maglie a cui ho dedicato tutto me stesso.
Ogni anno, da quel giorno, si svolge un torneo a mio nome.
È dedicato ai ragazzi fino ai dodici anni. Ogni tanto da quassù do un’occhiata. Sono belli, bellissimi. Vedo tantissime squadre che potrebbero essere noi qualche anno fa. Spero facciano meno casino di quel che facevamo noi. O forse no, che ne facciano almeno altrettanto, che si facciano riconoscere. Che il tempo poi non è così tanto come ti promettono.
Vorrei tanto esserci, anche solo per servire due o tre coca-cole e qualche birra per i genitori.
O anche per insegnar loro che il rugby è come la vita: te la godi di più se vai al fondo delle cose.
In una mischia, in fondo al mare.
Comunque vada.