A ventotto anni una decisione la devi saper prendere. Almeno capire se preferisci caffè o cappuccino per colazione eh, niente di simile al dilemma “filo rosso-filo blu”. Se vivi una vita dignitosa ma tutt’altro che sull’orlo dell’avventura quella (caffè-cappuccino) è una decisione che devi aver già preso. Anche qualcuna in più eh, ma non esageriamo. Se però di quei ventotto anni ne hai passati almeno una ventina su un campo da rugby, qualche idea di come gira e rimbalza il mondo devi pur averla. Soprattutto se graviti nella stanza dei bottoni e su di te ci sono le aspettative di una mischia che si è sfiatata per quel possesso, di un numero 9 che ti ha visto e adottato e di una linea di trequarti che non vede l’ora di sgranchirsi le gambe.
Se sei un mediano d’apertura e hai 28 anni due cose le devi saper decidere.
Fuori e dentro il campo, mi verrebbe da dire.
Perché dove sono nato io, in Nuova Zelanda, il rugby è qualcosa che ti segue ovunque. Mi ricordo quella decisione come fosse ieri. Da una parte un contratto in Inghilterra, tre anni agli Harlequins, un sacco di soldi e la possibilità di capire com’è giocare nel Paese in cui questo sport ha regalato al mondo i suoi primi vagiti. Dall’altro casa mia e la possibilità di giocarmi ancora la maglia più bella e importante del mondo, quella nera con la falce argentata. Già, ho già giocato negli All Blacks. Pure ad una Coppa del Mondo. La più devastante delle Coppe del Mondo, per un neozelandese. Da una parte la possibilità di essere un leader riconosciuto, dall’altra una lotta durissima per vestire di nuovo quella maglia, tra fenomeni all’apice della carriera e giovani leoni che scalpitano. Mica facile, sapete. Perché se sei un mediano di apertura, sei nato nella terra dei Māori negli anni ‘80 e non ti chiami Dan Carter non è mica semplice ritagliarsi minuti importanti. E perché per vestire quella maglia anche solo per due minuti di orologio saresti disposto a tutto.
Ma quel giorno decisi. Inghilterra. Provò a placcarmi anche Graham Henry, ma avevo già deciso. Forse, se fossi rimasto, una Coppa del Mondo l’avrei vinta, ma forse avrei cancellato dal mondo la storia di Stephen Donald, che è un bravo ragazzo e si merita tutto quel che si è guadagnato. E, cosa più importante, non avrei capito quanto è bello rischiare, azzardare, attaccare la linea anche quando non sei su un campo da rugby. Lo devo ammettere però, non sono mancati i momenti in cui mi sono chiesto che ci facessi qui. Londra, a volte, sa metterti nelle condizioni di sentirti solo tra la gente più di quanto possa sentirsi un eremita. Gente cordiale e gentile, per carità, ma l’empatia è un’altra cosa. Allo Stoop però, lo stadio degli Harlequins, c’è un altro clima. Le persone si trasformano. Si lasciano andare, tifano, prendono letteralmente il tuo cuore e lo gettano al di là dell’ostacolo, anche in giornate in cui si starebbe meglio al caldo a fregarsene di quel che accade fuori dalle nostre quattro mura domestiche. Come in quel dicembre del 2008. Una pioggia e una umidità che ve le regalo. Allo Stoop si presentano i francesi dello Stade Français, che avevamo battuto a Parigi appena una settimana prima. Loro erano forti, fortissimi e, giustamente, pure un bel po’ incazzati. il primato del girone è una cosa tra noi e loro. Loro, lo dico di nuovo, fortissimi: Leguizamón, El Mago Hernández, Parisse, i fratelli Bergamasco, Marconnet. Pure noi non eravamo male, visto che c’era gente come Chris Robshaw, Nick Easter e Jordan Turner-Hall, che aveva vent’anni e non capivo come non potesse interessare alla Nazionale inglese. C’ero pure io, mi chiamo Nicholas John Evans. Facciamo Nick e mi giro. A casa mia (ma qualcuno giurava anche fuori dai confini) dicevano fossi il più forte mediano di apertura dopo Dan Carter. Detenevo per molti una sorta di primato tra gli umani, ma giuro che non ho mai capito se tutto questo fosse una serie di complimenti o una dichiarazione di inferiorità rispetto ad altri fenomeni. C’ero quando gli All Blacks si presero la più bella delle rivincite, nel 2004, contro gli inglesi. Trentasei a tre, firmai un calcio di punizione. C’ero però anche in quella Coppa del Mondo del 2007, quando qualcuno decise che contro la Francia non avrebbero giocato tutti i migliori. Segnai 33 punti o giù di lì contro il Portogallo, un’altra manciata contro la Romania, poi tribuna. Il 2008 avrebbe dovuto essere l’anno della mia impennata. Avevo appena lasciato gli Highlanders per accasarmi ai Blues, dove avrei avuto più spazio. Ventilava, a casa mia, l’ipotesi che Dan Carter volesse prendersi qualche mese sabbatico in Europa, lasciando così libera la maglia numero 10 degli All Blacks. Dall’Europa, nel frattempo, arrivavano offerte. La più allettante era quella degli Harlequins, ma avrei voluto vedere quanto spazio avrei avuto nel Tri Nations, poi avrei preso una decisione. Finì che non mi convocarono e me ne andai. Al mio posto convocarono Stephen Donald, che aveva fatto una grande annata coi Chiefs ma che poi non si ripeterà a quei livelli. Se ne andò anche Carter, a Perpignan, ma si fece male quasi subito. Agli Harlequins dicevano sarei stato un leader, uno dei giocatori di maggior talento e di maggiore personalità, uno che in campo sa prendere sempre ottime decisioni. Per loro la prova di tutto questo era l’avere scelto gli Harlequins. Io non ne ero così sicuro, ma qualcosa dentro di me diceva che era giusto provarci.
I francesi, dall’altra parte del campo, hanno palesemente il dente avvelenato, una incredibile voglia di rivalsa. La garra dei tanti Pumas che giocano con loro, su un campo così pesante, si fa sentire più del solito. Centro i pali subito, poi però sale alla ribalta tale Noel Oelschig, mediano di mischia ex nazionale sudafricano under 21. Segna 11 punti consecutivi, due calci e una meta, vanno sopra il break e abbiamo giocato appena poco più di 20 minuti. Noi non ci stiamo a perdere e risaliamo il campo: segno altri tre punti dalla piazzola. Ve l’assicuro, ad andare per i pali in certe giornate ci vuole coraggio. Centrarli, però, quando il cielo manda giù di tutto e l’umidità comincia ad affittare le tue ossa, è il regalo più bello che puoi fare ai tuoi compagni di squadra. E, allo stesso tempo, il più perfido dei dispetti ai tuoi avversari. E un calciatore deve saper essere fastidioso, se vuole far strada. Poi servo Turner-Hall, che buca la difesa e si fa tutti i 22 in solitaria schiacciando in mezzo ai pali. La partita è durissima, sfiancante, ma equilibrata. Piazza ancora Oelschig, rispondo io, 16 a 14.
Mancano dieci minuti al termine, loro non smettono di attaccare. Noi teniamo bene in difesa, non facciamo falli né andiamo in carenza di ossigeno. Solo che ad un certo punto Oelschig apre la palla a Hernández fuori dai 22. Drop, senza alcun vantaggio da sfruttare, su un campo del genere.
Bisogna avere due maroni grandi come palloni da rugby per fare una cosa del genere.
E due piedi della madonna.
Dentro, vanno in vantaggio loro.
Mica facile ribaltarla, ora. Anche perché questi, come noi, a livello di disciplina sono a posto, non fanno falli stupidi o altro. E io le vedo le facce dei miei compagni: siamo stanchi, abbiamo giocato una grande partita, so che daranno tutto fino alla fine, ma non credo abbiano la sparata da ultimo chilometro nelle gambe. No, non dopo quel drop. Loro devono averlo intuito e ci ricacciano continuamente indietro al piede. Vendono la loro metà campo, anche a costo di calciare troppo lungo. Manca un minuto e mezzo, ripartiamo dai nostri 22 con un drop. L’ovale non si alza, è pesantissimo, però ha una discreta gittata e Parisse è costretto a farlo rimbalzare per non fare avanti. Sergio è una terza linea incredibile, ma questo non sta a significare che non conosca l’uso del piede. Fa due passi, poi calcia il più distante possibile. Il campo è pesante anche per lui, però, e quel pallone esce direttamente. Si scusa con i compagni, noi guadagniamo una touche poco fuori dai 22 francesi. Il pubblico dal campo di solito non lo senti. No, troppa la concentrazione, troppo il bisogno di rimanere ancorati a quel che succede tra quelle quattro linee di gesso. Questa volta, però, il ruggito ci riempie le orecchie. Forse è l’ultima possibilità, cerchiamo di sfruttarla al meglio. La prendiamo, ma gli avanti francesi non ci permettono di costruire la maul. Sono asfissianti, sanno che da quella difesa dipende il risultato dell’incontro. Danny Care, mio dirimpettaio in mediana, mi vede schierato profondo. Vorrebbe darmi la palla per il drop, ma gli dico di no. Quaranta metri di drop con quella poltiglia sotto i piedi li fai solo se ti chiami Frans Steyn. A ventotto anni una decisione la devi saper prendere. Almeno capire se preferisci caffè o cappuccino per colazione. La mia è “drop sì- drop no”. Non facile. Care si sbraccia, fa segno che la benzina sta finendo, che bisogna quantomeno variare. Mi passa la palla, la difesa sale sparata. Errore loro, perché per questa volta vince il no. Trovo il buco e mi ci fiondo, servo all’esterno Turner-Hall, ma l’azione ristagna ancora. Loro si ricompongono e, cosa frustrante a livelli inimmaginabili, non fanno un fallo che sia uno. I ragazzi davanti guadagnano centimetri, si portano dietro chili di avversari e fango. Sono a una trentina di metri, chiamo il drop. Provarci è nei miei pensieri, ma voglio prima vedere come salgono stavolta. Care mi serve, io faccio il gesto di accompagnare la palla al piede, loro salgono.
Male, o meglio, non perfettamente.
È questione di centesimi di secondo, è ancora “drop no”. Buco ed entro nei 22, mi prendono a una decina di metri dalla linea di meta. Sono feroci, il fango freddo sotto di me brucia e pure tanto. Nel frattempo i ragazzi hanno allargato il gioco. Sentono che manca poco, erodono centimetri, siamo sulla linea di meta. Loro però tengono botta. Quando sono schierati non fanno un errore che sia uno. Procediamo nel senso, non si passa. Torniamo indietro alla ricerca di avversari stanchi ed eventualmente mal posizionati, nulla da fare. Ventisette, ventotto fasi.
È il momento, Danny mi sente.
Arrivano pallone e uomini infangati, il più vicino credo sia Parisse.
Drop.
Il più brutto drop della mia carriera.
Il più brutto ed efficace drop della mia carriera.
La palla si arrampica a fatica sulla traversa, poi si lascia cadere come un saltatore in alto dopo un Fosbury venuto bene. Non ho mai esultato pesantemente in vita mia, ma sono lì a correre nel fango come un esagitato. Nigel Owens, intanto, ha chiamato il TMO, non è convinto che il pallone sia passato sopra la traversa. È andato, Nigel, è andato. Lo Stoop è completamente saltato per aria, la partita finisce lì.
Sapete, ho ventotto anni e da una ventina circa il mio migliore amico è un pallone ovale. Due o tre decisioni, in un rettangolo ovale, le so pure prendere. Fuori non lo so. Avrei potuto restare, quando Graham Henry insistette. Diceva che un posto con gli All Blacks me lo sarei giocato di sicuro. Forse, se fossi rimasto, una Coppa del Mondo l’avrei vinta. Ma forse una cosa del genere, in campo, non mi sarebbe mai capitata. Quel che è certo è che non avrei mai capito quanto è bello rischiare, azzardare, attaccare la linea anche quando non sei su un campo da rugby.