Ah il derby d’Italia, quante volte me lo sono guardato dal vivo. Erano altri tempi, questo è sicuro, ma il pubblico e l’attenzione per La Partita erano sempre di alto spessore. Battaglini gremito, sfottò tra le due tifoserie e giocatori che sul campo non si risparmiavano, mai. Mi piacerebbe tornare a respirare quell’aria di rugby. Quella attuale non mi piace proprio, ma questa è un’altra storia. In quegli anni si respirava olio canforato, e i comfort che oggi hanno i giocatori non esistevano proprio. Avere una tuta ed un borsone tutti uguale era già una grande conquista. Ma tutti giocavano per rincorrere quella palla che rimbalza male, non di certo per avere una maglietta o simili. AH, altri tempi. Diciamo che in passato ogni derby era vissuto con un trasporto incredibile, non solo quello “D’Italia”. In un tempo lontano giocavo in una squadra di quartiere che, per un assurda ed incredibile serie di favorevoli coincidenze, era riuscita a ritagliarsi un posto al sole nel rugby che, a quell’epoca, contava. In che modo? Era composta da una trentina di appassionati veri e aveva anche un piccolo sponsor, un ristorante con tipo 3 tavoli interni e una gran bella veranda che era quotidianamente occupata da tutta la squadra. Si pagava, si pagava tutto. Ma era come stare a casa. Non so nemmeno se effettivamente ci abbia mai fatto da sponsor, ma noi per almeno un tre stagioni l’abbiamo portato con orgoglio sulla maglia da gioco: “Gastronomia da Mario”, si chiamava. Il primo anno ad alto livello, in ogni caso, la gara più attesa dell’anno era il derby con la “parte alta della città”, il nord. Già, noi eravamo i figli del centro città, casinaro, festaiolo e sognatore. Loro, invece, erano pragmatici, strutturati e avevano il campo in un complesso costruito proprio per contenere più sport, tra i quali c’era anche il rugby. Tutto pulito, tutto in ordine. Noi, invece, giocavamo nel bel mezzo dei vicoli, campo raggiungibile solamente a piedi. Fatto sta che il primo derby lo andiamo a perdere in casa loro, forse più perché in soggezione davanti a tutto quel cemento, piuttosto che per demeriti effettivi della squadra. Il campionato, poi, scorre tranquillo e noi, verso la fine ci troviamo a lottare addirittura per un posto nei play off (cosa incredibile, visto che nessuno di noi aveva alcuna velleità, se non quella di salvarci). L’ultima gara di campionato, tuttavia, è quella del derby di ritorno, in casa nostra. La tensione è alta, altissima. Mariolino, il pilone, si presenta in gastronomia tutte le sere e non mangia mai, ad esempio; mentre l’uruguaiano – chiamato così perché secondo il coach ricordava un suo vecchio amico di Montevideo – di professione ala e conquistatore di fanciulle, al mercoledì ne aveva già rifiutate ben quattro. Passano, in questo clima, i tre allenamenti settimanali. Stranamente siamo tutti presenti e il venerdì sera ci rechiamo in Gastronomia, post sessione: tutti seduti, silenzio generale. Qualcuno beve acqua, altri vivono lo scorrere del tempo. Ad un certo punto Mario, il cuoco esce e con fare deciso sistema un pentolone di splendida carbonara in mezzo al tavolo, poi sistema i piatti e rientrando in cucina sibila: “fate come cazzo volete, ma per giocare dovete mangiare. Io il mio l’ho fatto”. Chiaramente il pentolone lo finimmo in pochi attimi e i piloni ripresero a mangiare. Poi l’allenatore fece il suo discorso. Da brividi. Lo ricordo ancora come uno dei più toccanti della mia carriera. Era arrivata la sua ultima partita in panchina, secondo lui era arrivato il tempo di dedicarsi al suo orto e di oziare in terrazza, vivendo il rugby solo da spettatore. Era una decisione che aveva preso prima di iniziare il campionato, assieme all’inseparabile moglie, ma aveva voluto portare a termine il proprio lavoro nel migliore dei modi. Perché non avendo avuto figli, ognuno di noi, per lui, lo era a suo modo e voleva lasciarci con il sorriso. E quale modo migliore, se non giocando und derby. Ci lasciammo a mezzanotte, dandoci appuntamento l’indomani alle 13.00, considerato che la gara si sarebbe giocata alle 14.30 del sabato. Notte insonne. Pensieri e sogni (pochi) ovali. Mal di testa. Voglia di placcare. Questo lo spirito di tutti. Arrivo al campo generale ore 10.00, così per sicurezza. Anche quelli che normalmente lavoravano si erano presi ferie, malattia, o non si erano proprio presentati. Tanto i datori di lavoro erano tutti sugli spalti dalle 14.30 e questa era l’unica volta dell’anno in cui li lasciavano autogestirsi. In quella giornata, poi, tutto sembrava andare alla perfezione. Spalti gremiti fin da mezzogiorno, sole e cielo senza una nuvola. Anche l’incontro con quelli del Nord era andato bene e, tutto sommato, eravamo ancora tutti concentrati e nessuno si era ancora lasciato prendere dalla tensione, stranamente. Continua…
La foto è tratta da Wikipedia ed è un’immagine della prima finale scudetto italiana, Amatori – Lazio a Bologna (1929).