Touch, crouch, set. La mischia azzurra va giù quasi subito, Clancy fischia, Punizione per la Scozia. Greig Laidlaw dalla panchina non capisce subito e alza il braccio per maledire qualcuno. Poi si rende conto che la palla è loro e rotea il pugno. Sorride e irride qualcuno. Murrayfield esulta, produce un boato che senti che lo tiene dentro da un po’. Sa di sollievo, di paure andate via, di spettri dileguatisi non si sa dove, ma via di qui. Forse nel cielo, un grigio non troppo grigio a cui non siamo (e non saremo mai) troppo abituati, quello di Murrayfield, Edimburgo. Certo, è febbraio, ma se vai lì in gita a maggio non è che sia tutta ‘sta Maracaibo. Il match riprende, la palla ce l’ha Peter Horne, centro dei Glasgow Warriors. A lui il compito di calciare e cacciare via quel pallone. Fuori, il più lontano possibile. Via da casa loro, verso il campo dell’Italia, che non ha i mezzi per giocarsi ancora il match ma che è ancora lì. Dai, fuori, prendiamo la touche e vendiamo la metà campo. Copione scontato, ma per vincere a volte non servono gli effetti speciali. È che nessuno forse si aspettava che l’Italia, che quest’Italia, riuscisse a scombinare così tanto il match. Pazienza l’Italia del 2013, la più forte mai vista al Sei Nazioni, che comunque a Murrayfield ne prese 34. Pazienza quella del 2007, meno profonda ma abile a sfruttare un gameplan scozzese a dir poco scriteriato.
Quella del 2015 no però. Non questa.
Frenata dalle beghe della Federazione, da un paio di stagioni magre di Benetton e Zebre, da un Sei Nazioni 2014 disastroso. E non è che nelle prime due giornate abbiano tanto invertito la rotta: un’ora di Piave contro l’Irlanda, 47 punti dall’Inghilterra. La stampa anglosassone che la vorrebbe fuori dal Sei Nazioni. Senza almeno 5 giocatori in grado di essere titolari fissi. Con due esordienti e un mediano di apertura autore di due buoni match a novembre, ma che fino a due stagioni fa giocava pur sempre nella seconda serie italiana. Tre stagioni fa, addirittura panchina nella seconda serie neozelandese.
Certo, manca qualcuno pure alla Scozia. Finn Russell, per esempio. Fino a qualche anno prima faceva il cesellatore, in due anni ha scalato i vertici del rugby scozzese. Non è un’apertura da figurine, non è un Jonny Wilkinson in quanto a stile, ma è devastante negli spazi e sa tutto quel che c’è da fare, ovunque ed in ogni momento. Solo che nella sua ubiquità ha placcato un gallese in volo nel turno successivo. Squalificato dalla Commissione Internazionale. A Vern Cotter, neozelandese da poco sulla panca, non mancherebbero alternative: ci sarebbero Duncan Weir, Tom Heathcote. Perfino Laidlaw sarebbe un buon 10. La scelta ricade invece su Peter Horne, che è un signor centro. È meno performante in cabina di regia rispetto ad altri suoi colleghi, ma è di Glasgow, come tutta la linea dei trequarti che si ritrova alle spalle. Come altri nove compagni titolari. Vern Cotter sa quello che fa (per referenze citofonare Clermont), punta tutto sull’ossatura dei Warriors che a maggio vinceranno il Pro 12 e i risultati gli danno ragione: in meno di una stagione prende in mano una squadra di cilindrata inferiore e la fa rendere al massimo, sfruttando un ricambio generazionale che finalmente gli mette a disposizione una quantità di talento che, tra i trequarti, non si vedeva da tempo. A cominciare da una freccia come Tommy Seymour, passando per Mark Bennett e Alex Dunbar. E, dulcis in fundo, Stuart Hogg. Ventitrè anni che su quel viso da britannico abbruttito da qualche pub di troppo sembrano almeno almeno dieci in più. Sì, certo, ma due gambe e un cervello che a Melrose, patria storica del Seven, non erano abituati a vedere da un bel po’. A tanti ricorda Gavin Hastings, leggendario estremo di Edimburgo, solo che Hogg corre il doppio.
Lo sanno bene i gallesi, che l’hanno visto scattare a metà campo.
L’abbiamo visto noi nel 2013, nei suoi 22, intercettarci nel nostro momento migliore.
Differenze? Nessuna.
Corsa a cannone e meta. Alla vigilia il nostro spauracchio, su tutti, è lui. A questo però va aggiunto che arriviamo in Scozia con due o tre pesi mica da ridere nello zaino già di nostro. Martin Castrogiovanni si è infortunato giocando con un cane, Zanni e Sgarbi sono in infermeria da tempo. Nelle settimane precedenti si sono fermati Masi e Campagnaro. Se non è emergenza totale poco ci manca. Jacques Brunel fa debuttare allora Enrico Bacchin come primo centro e Michele Visentin all’ala. In prima linea a destra siamo abbastanza coperti, con Chistolini titolare e Cittadini in panca. In mediana la scelta ricade ancora su Kelly Haimona, ventinovenne di Hawke’s Bay in forza alle Zebre. Ha debuttato a novembre contro Samoa e Pumas giocando due signori match e alimentando il mito del successore di Diego Dominguez, poi il nulla o poco più. Avrebbe un gioco al piede che per quel che abbiamo in mente di fare non dispiace, ma è lento e prevedibile, e se già dietro soffri di tuo la superiore qualità altrui figurarsi se si finisce in moviola. In panchina c’è Allan, che non è Dan Carter ma che a detta di molti è comunque tutta un’altra cosa. Tommaso però deve sedersi, mancano pochi incontri alla Coppa del Mondo e Haimona ha già intascato l’investitura e il posto da titolare.
Poi, nel 2016, si vedrà.
Sta di fatto che dopo sette minuti Haimona telefona un passaggio all’esterno e Mark Bennett capisce al volo. Cinquanta metri di corsa, meta in mezzo ai pali. Dieci a 0, perché i primi punti li avevamo già regalati su possesso nostro nei primi secondi del match, Laidlaw ha già ringraziato. Il match per noi è un dramma vero, gli scozzesi ci attaccano alla mano e fanno sempre strada. Murrayfield ruggisce, sa che dopo due buoni incontri ma nulla più forse è la volta buona per dar fiato alle cornamuse. Sul calcio di avvio di Haimona Lamont mette un piede fuori, touche nostra nei loro 22. In campo aperto Hogg e compagni ci stanno facendo a fette, è vero, ma appena Biagi porta giù il pallone decidono di esagerare.
Vogliono umiliarci in maul.
Ci spingono fuori lateralmente, ma non si curano del fatto che noi siamo già passati. È un peccato di superbia di una gravità incalcolabile, e se ne renderanno conto molto presto. Andiamo oltre di prepotenza, è Furno a schiacciare. Potremmo tornare a tre punti, ma Haimona sventa la minaccia. Non è un fuoco di psglia però: ci siamo, non abbiamo a naso troppe munizioni, perciò ci attacchiamo principalmente a difesa e orgoglio. Poi si vedrà. Non sapremo mai se gli azzurri qui si sono ricordati della Francia di Lievremont alla Coppa del Mondo del 2011, di quelli che dopo un girone disastroso hanno lasciato perdere tutto e ne hanno fatto un affare da uomini, piacerebbe tanto fosse così. Sta di fatto che la partita cambia. Non abbiamo le gambe per reggerli, ma ci mettiamo i placcaggi di George Biagi, che ha mamma scozzese e quindi sente parecchio il match, la ferocia agonistica di Simone Favaro, le corse scapigliate di Joshua Furno. E Sua Maestà Sergio Parisse, amato da noi, amatissimo all’estero, in tutta la sua sostanza. In tanti da noi reputano troppo vezzoso il suo trattamento dell’ovale, tutti quei sottomano, quelle finte. Bene, provate ad andare oltre il Vallo di Adriano a fare un discorso del genere.
Rideranno anche a Stonehenge.
La verità è che per avere un giocatore del genere farebbero carte false ovunque, pure in nuova Zelanda, pure in casa di Kieran Read. E non è solo quello che lascia sul campo, è proprio il modo di prendere per il coppino i suoi e metterseli nel caso in spalla, sia a parole che coi placcaggi. In caso di necessità lo trovate a recuperare le palle alte, a ricevere il pallone del mediano di mischia al posto dell’apertura. Ovunque. Anche a Murrayfield. La Scozia era pronta a tutto, ma non a una così tenace reazione italiana e, come tante squadre britanniche che non se l’aspettano, piano piano si placa. Va a segno con Laidlaw dalla piazzola, risponde Haimona, poi ancora Laidlaw. Gli scozzesi provano ancora a farci male alla mano, ma noi in difesa ci siamo dati una sistemata e reggiamo. E da questo momento in poi bisogna togliersi tanto di cappello davanti al nipote della signora Elsa, nata ad Odolo in provincia di Brescia e trasferitasi in Australia in cerca di lavoro negli anni ’30. Il nipote all’anagrafe è registrato come Luke Joseph McLean, gli piace il calcio ma ad un certo punto è “costretto” a giocare a rugby. È campione del mondo under 19 con l’Australia nel 2006 (la stessa nidiata di David Pocock e Christian Leali’ifano), poi nel 2008 viene chiamato in Italia dal Calvisano, provincia di Brescia. Da lì in poi i colori azzurri trovano un giocatore mai troppo amato dal pubblico, ma glaciale nei momenti topici e sicuro nella gestione dell’ovale, al piede e alla mano. È lui a mettersi spesso alle spalle di Gori e a dettare i ritmi, con Haimona che spesso scala a primo centro. Non sarà una svolta epocale, ma ogni volta che tocca palla gli scozzesi non sono più così irreprensibili, né riescono più a leggerci così facilmente.
No, non premono più come all’inizio, ma nemmeno noi riusciamo a metterli in grossa difficoltà. Siamo sotto 16 a 8, la partita è ancora lunga, ma la sensazione generale è che serva l’episodio che dia coraggio alla compagnia. Guadagniamo un calcio piazzato da mischia nei 22 scozzesi. La posizione è defilata, ma non sono più di 25 metri. L’ovale resta praticamente nella tomaia di Haimona. La palla sale, ma ha poca benzina e cade prima di arrivare ai pali. Il sottoscritto, che quella partita l’ha vista in televisione, ha tirato fuori dalla propria personale faretra delle frecce avvelenate contro l’umanità che non pensava di avere. Poi è un lampo: Giovambattista Venditti, all’ala, ha visto il volo spezzato e ha capito tutto. Brucia tre scozzesi nello scatto, si avventa sul pallone aereo e prova a schiacciare in un groviglio talmente ben riuscito che Laocoonte, non avesse le mani impegnate, applaudirebbe di gusto. L’arbitro chiama il TMO, dalle telecamere si vedono i 100 e passa chili di Venditti intrufolarsi nella selva di muscoli scozzesi e schiacciare la palla. Meta italiana, e inizia ufficialmente un’altra partita. I padroni di casa accusano il colpo, la baldanza dei primi minuti lascia spazio sempre di più al cielo grigio di Edimburgo. Poche idee, paura tanta. Non che l’Italia faccia chissà cosa, ma i placcaggi di Favaro cominciano a farsi sentire, così come le catapulte di McLean e l’esempio di Parisse. I nuovi si sacrificano, soprattutto Bacchin, che mette a segno 11 placcaggi. Minto ne mette giù 13, Ghiraldini 14. La mischia inizia a macinare terreno. Solo che non facciamo punti nei primi 20 minuti della ripresa. Si, ma mica è così facile: tra di loro stanno facendo un partitone Blair Cowan, terza linea neozelandese naturalizzata, Rob Harley, flanker pel di carota e abrasivo come pochi altri giocatori in Europa, e Jonny Gray, fratello di Richie, mostruoso in touche e nei placcaggi. Allan, che è entrato al posto di un claudicante Haimona, ad un certo punto avrebbe la possibilità di portarci avanti, ma gli tremano le tomaie non centra i pali da posizione comoda. Non lo imita Laidlaw poco dopo in una delle nostre poche sbavature della ripresa, la Scozia va a più 4.
A ben vedere, però, i padroni di casa non hanno molta birra nelle gambe. Li abbiamo cotti a puntino, sono avanti solo per via di un nostro risveglio tardivo, sanno che ogni fase statica potrebbe essere un problema serio. Gli azzurri vincono bene una mischia a metà campo, calcio, andiamo nei loro 22. Il pallone viene tenuto alto, è ancora mischia azzurra. Cittadini, entrato nella ripresa, sta facendo diventar matto Dickinson, Lovotti contro Murray tira fuori i denti. Li buttiamo indietro un paio di volte, l’arbitro Clancy ravvisa un solo fallo. Gli scozzesi sono più scafati di noi in queste occasioni, perdono tempo, fanno un paio di cambi e ci riprovano. Ancora un reset. Touch, crouch, set. La mischia azzurra si allunga e va giù quasi subito, Clancy fischia ancora. Punizione, stavolta per la Scozia. Greig Laidlaw dalla panchina non capisce subito e alza il braccio per maledire qualcuno. Poi si rende conto che la palla è loro e rotea il pugno. Sorride e irride, probabilmente il destinatario è la nostra panchina. Murrayfield esulta, produce un boato che senti che lo tiene dentro da un po’. Sa di sollievo, di paure andate via, di spettri dileguatisi non si sa dove, ma via di qui. Forse nel cielo di Murrayfield, che ora è grigio solo per noi che non ci siamo abituati. Ci abituiamo poco, a dire il vero, a quei colori. Meno di loro di sicuro. Il match riprende, la palla ce l’ha Peter Horne, che sembrava dovesse essere l’arma in più e invece non ha fatto giocare i suoi come poteva. Né come doveva. Via da casa loro, verso il campo dell’Italia, che come il bombo non ha ali apparentemente adatte al volo ma che se ne frega e non cede. Dai, fuori, si dicono in tanti, prendiamo la touche e vendiamo la metà campo. Horne calcia, ma fa subito una smorfia. Forse un crampo, forse una bella cazzata. La palla non esce e arriva a Vunisa che sfonda. Gli scozzesi lo prendono, ma fanno fallo. Avremmo un vantaggio, ma Parisse non vuole azioni gratis e ferma il gioco. Vuole la touche, McLean lo accontenta. Furno prende una palla vitale e forma la maul, gli scozzesi non hanno le armi per fermarci legalmente, né si possono permettere di farci altri regali come quello del primo tempo. Fanno crollare la maul, Clancy fischia e manda fuori Toolis, seconda di origine australiana. Andiamo ancora in touche, Manici lancia, Furno la prende ancora. Loro provano a metterci giù con le buone e con le cattive. Riparte Cittadini, ma è da solo. Siamo ai 5 metri. Gori apre a sinistra, riceve Manici, che si gira e con gli altri forma la maul. Spingono tutti, avanti e non: Parisse e la sua leadership, Furno e i suoi muscoli scapigliati, il sangue non più freddo (e vorrei ben vedere) di McLean, la meglio gioventù di Bacchin.
Tutti.
La maul sa essere democratica, quando ci si mette.
Il pack scozzese crolla, Clancy fischia e va sotto i pali. Meta tecnica. Mani nei capelli, arriva un altro giallo per loro, Capitan Sergio è a terra, sfiancato e in lacrime, Allan è già in piazzola e firma altri due punti, il tempo è già scaduto. Murrayfield lentamente si spopola, a poco a poco rimangono solamente gli italiani. Vince a mani basse sugli spalti lo striscione “Braveheart è il mio film preferito”. Spicca, colorato di bianco rosso e verde, nel silenzio e nelle facce grigie di Murrayfield, il cui cielo non perdona e resta lì, imparziale ed incurante di gioie e dolori umani. Gioie che ti devi guadagnare minuto per minuto, placcaggio per placcaggio, punto per punto. Gioie che per noi sono rimaste lì, forse non ci stavano nel bagaglio a mano. Forse le abbiamo lasciate noi di proposito, per ricordare ai posteri che lì abbiamo gioito ed esultato. Chissà se il firmamento scozzese, quello sopra Murrayfield, ce le conserverà finché non avremo le forze (e la voglia) di andarcele a riprendere.