Ecco, alla fine sono tornato qui. Mancavo da tempo, proprio quel tempo che in questo periodo mi ha strappato via l’anima decidendo di contrarsi all’improvviso, ma questa è davvero un’altra storia. Sono qui per parlare di rugby. In effetti di cos’altro potrei parlare? Non è che l’empirismo logico che sto spiegando a scuola in questi giorni susciti tutto questo interesse.
Ecco, non so perchè mi ritrovo a scrivere e pensare (spesso proprio in quest’ordine) quasi sempre nello stesso momento e sempre sullo stesso treno. Quasi sempre scrivo di rugby. Quasi sempre. E’ notte. Anzi no, non lo è. Siamo in quel momento della giornata in cui è giorno ma sembra essere notte. Non che sia importante, in effetti. Sono giorni che penso di tornare a raccontare l’alchimia di un momento. Mi piace farlo. Beh questa è un ottima occasione per farlo. L’unica visto che qui di silenzio per concentrarsi e scrivere non se ne trova quasi più. Ecco, volevo raccontarvi una storia e poi arriva questa parola che mi attraversa la mente all’improvviso e mi scombina tutto.
Silenzio, forse non ci avete mai pensato a quanto il silenzio possa essere una componente fondamentale del rugby.
Quante volte vedo le ragazze sul campo rimanere in silenzio. In quei momenti mi appaiono come scrigni preziosi che non sono in grado di violare e forse nemmeno lo vorrei… Chissà cosa potrei trovarci nei loro silenzi, probabilmente qualcosa di poco lusinghiero, o forse no. Se penso al silenzio mi vengono in mente gli stadi irlandesi, o per me che ormai sono indissolubilmente legato al mondo del rugby in rosa il silenzio dello Stadio di Ivrea, di fronte agli errori di Veronica Schiavon nella partita con le inglesi. Veronica non sbaglia quasi mai dalla piazzola. Sabato invece quel pallone non voleva proprio saperne di entrare, nemmeno quando ci ha provato Michela Sillari a spedirlo di prepotenza in mezzo ai pali. Alla fine di una battaglia coraggiosissima sono mancati proprio quei punti per scrivere la storia. I calci piazzati, gioia e sofferenza, maledetti o benedetti a seconda dei casi, sono da sempre la massima espressione di quella ruota che gira e di quel pizzico di fortuna fondamentale ad ogni squadra per diventare grande. Alcune delle storie più belle delle nostre azzurre sono indissolubilmente legate ad un pallone calciato trai i pali. Come dimenticare la bellissima vittoria di Rovato con la Francia, figlia di un piazzato all’ultimo minuto sempre di Veronica Schiavon o il primo pareggio con la Scozia frutto di un drop magistralmente inventato da Michela Tondinelli. Le ricordo tutte, favole che passano da questa magia così emozionante da rappresentare, forse, simbolicamente, la bellezza e allo stesso tempo la stranezza di questo meraviglioso sport che è il rugby, dove puoi vincere una partita senza nemmeno segnare una meta.
Talvolta non mi capacito di quanto sia strano questo gioco. Gioie, esultanze, abbracci, festeggiamenti… Ma anche tristezza, lacrime, disperazione e silenzio: il piazzato racchiude per certi versi tutte le più belle emozioni del rugby. La sfida più grande di una giocatrice che deve prima battere se stessa, per poter poi sconfiggere le avversarie. Una sfida fatta di gesti e di silenzio che solo chi ha provato a dover vincere una partita con un piazzato è in grado di comprendere.
Sulla solitudine di chi calcia sono stati scritti sono stati scritti libri e raccontate poesie… E mentre io continuo a cercare d’ intuire qual è l’immagine che da corpo al silenzio, nella testa delle mie giocatrici quando guardano i pali, sono sicuro di una cosa: ogni piazzato segnato o fallito segna quasi invisibilmente un confine che invece è netto e decisivo tra un sogno che continua ed una avventura che finisce.
Sempre.
Cosa succederebbe se cambiasse, solo per un istante, l’esito di un calcio piazzato? Ci ho pensato spesso. Quante storie sarebbero cambiate? Quante giocatrici avrebbero ricevuto la gloria negata invece solamente per un errore, purtroppo fatale? Se i calci di sabato fossero entrati tutti e avessimo battuto l’Inghilterra, cosa ci sarebbe di diverso? Niente!
O probabilmente tutto quanto, ma non lo sapremo mai.
La storia è così semplice da cambiare, a volte basta un pallone che entra beffardo, sornione o prepotente in mezzo ad un’acca vicina o lontana. La storia non è mai scritta, così come i destini e le carriere delle giocatrici, la vita stessa di quelle donne. Strano ricordare storie che si intrecciano, con un occhio al passato ed una porta socchiusa sul futuro.
Penso che la mia storia non è poi così importante nelle sue tinte rossoblu ma è pur vero, che in un giorno di maggio un calcio piazzato potrebbe cambiarla, e con essa, quella di chiunque si presenti su quella piazzola, con un pallone, un acca davanti e tutte le emozioni racchiuse in quel fantastico istante. In fondo ognuno ha la propria storia da raccontare, un po’ come una partita di rugby: ognuno gioca la sua.
Sì, probabilmente scriverò qualcosa sul silenzio della piazzatrice, mi sembra il genere adatto di storia da raccontarvi. Lo farò domani visto che per oggi il mio tempo è finito. L’altoparlante annuncia l’arrivo in stazione, il finestrino rimanda la mia immagine pensierosa: Lorenzo, i treni (sempre in ritardo) e le storie. Storie di vita.