“Sì, ho più di un rimpianto con gli All Blacks”.

Non la possono dire in tanti, una frase del genere. Giusto poco più di un migliaio di persone. Giusto quelli che, almeno una volta nella vita, hanno indossato una maglia nera con la felce argentata all’altezza del cuore. E viene facile pensare che, a dire queste parole, sia qualcuno da ricercare tra i giocatori con uno, due, al massimo quattro/cinque caps, di quelli durati lo spazio di un tour europeo o di un Tri Nations. Meno di una generazione.

Nossignori, siete tutti in errore.

Perché chi si confida così davanti ad un giornalista è qualcuno che ha collezionato 58 caps, ha partecipato ad una Coppa del Mondo e ha segnato 46 mete. Perché chi si confida così si è meritato in carriera il soprannome di Paekakariki Express, l’Espresso di Paekakariki, paese al nord di Wellington. Perché chi si confida così si chiama Christian Cullen ed ha tutto il diritto di avere i suoi rimpianti ovali.

Perché se fin da piccolo sei un predestinato è normale che le aspirazioni siano alte, se non altissime. Pure il DNA è buono, visto che è pronipote di Brian Steele, già All Blacks negli anni ’50. Il ragazzo, però, secondo gli addetti ai lavori sembra avere molte più frecce al suo arco: viene convocato nella selezione scolastica nel 1993, nei Colts (la Nazionale under 21) nel 1994, in quella a sette nel 1995.

Se considerate che il ragazzo è nato nel 1976, beh, due o tre risorse dalla sua le deve avere.

Innanzitutto una velocità di base che non si è sempre vista, arricchita da una capacità di accelerare e decelerare nello stretto degna delle migliori scatole del cambio del circo della Formula Uno. A questo aggiungete una larvata capacità di leggere le intenzioni dei compagni di squadra e di intuire l’angolo più favorevole per andare oltre la difesa. Dulcis in fundo, una devastante cattiveria agonistica negli ultimi 10 metri . Se l’ovale finisce in mano sua in quella zona di campo è meta, oppure bisogna pregare fortissimo.

Ma le preghiere, se non si considerano quelle recitate sotto forma di placcaggi, funzionano poco.

Gioca ala o preferibilmente estremo, ruolo in cui riesce ad essere molto più imprevedibile e libero di cogliere impreparati gli avversari, ma in realtà la cosa non conta: non è questione di essere forte in entrambi i ruoli, è questione di essere fortissimo in entrambi i ruoli.

Con la Nazionale Seven segna diciotto mete a Hong  Kong, alle quali aggiunge più di venti trasformazioni. Finisce nel taccuino di molti osservatori, ma il ragazzo non vorrebbe spostarsi di troppi chilometri da casa. E allora, quando si fa avanti qualcuno di Wellington, non ci sono scuse.

Nel 1996 firma per gli Hurricanes e diventa di fatto un giocatore professionista. Debutterà, di lì a pochi giorni, nel primo match in assoluto del neonato Super Rugby. Il livello è altissimo, c’è il meglio del rugby dell’emisfero sud, ma Christian segna sette mete nei nove incontri in cui appare a referto. Eh no, il ragazzo non soffre i primi passi nei salotti ovali che contano. E lo dimostrerà pure qualche mese più tardi, quando a farlo debuttare saranno gli All Blacks: tre mete all’esordio contro Samoa, quattro contro la Scozia. Poi però si infortuna al ginocchio e deve saltare la seconda parte della stagione.

Eh, non facile ritornare come prima, dopo essersi sbranati un ginocchio.

Certo, ditelo agli avversari: nel 1997 segna undici mete in dieci incontri con gli Hurricanes e dodici in dodici presenze con gli All Blacks. È praticamente inarrestabile, devastante in campo aperto, è uno dei pochi a prendere per mano una nazionale, quella neozelandese, che nel 1998 vive uno dei periodi più grigi della sua storia, facendo registrare cinque sconfitte consecutive. E si candida ad essere uno degli osservati speciali tra gli All Blacks in vista della Coppa del Mondo del 1999.

Ora rileggetevi la frase tra virgolette qua sopra.

Dite la verità, morite dalla voglia di mandarlo a quel paese.

Di rinfacciargli che una carriera del genere non è da rimpiangere, semmai da raccontare ai nipoti.

E avreste pure ragione, se tutto il discorso finisse qui.

La Coppa del Mondo del 1999, però, è alle porte e John Hart, il selezionatore degli All Blacks, è in una posizione in cui tanti vorrebbero essere, e quindi in una posizione che nessuno vorrebbe veramente ricoprire. Ha a che fare con un triangolo allargato potenzialmente esagerato per qualità, quantità, classe, velocità e potenza, ma con almeno quattro fenomeni da sistemare in tre posti. Ci sono Jonah Lomu e Tana Umaga, per esempio. C’è Jeff Wilson, che qualsiasi attrezzo sportivo decida di toccare riesce ad essere decisivo a livello mondiale. È nazionale neozelandese di cricket, è stato un campione scolastico di staffetta ed ha giocato a basket a buoni livelli domestici. Con una palla da rugby in mano è illegale, soprattutto da estremo.

Sì, certo, e Cullen come lo tieni fuori?

Hart decide di metterlo secondo centro. In fondo, con un Ieremia che è un grimaldello perfetto, un Cullen gli spazi li può esplorare come e quanto vuole. E poi a livello giovanile ha già giocato nella cerniera, vuoi che vada tutto male?

No, non va tutto male. Non fino alla semifinale.

Segna due mete Jonah Lomu, Mehrtens al piede fa più o meno quello che vuole.

Solo che la Francia si inventa trenta minuti mai più visti a quei livelli e demolisce i sogni degli All Blacks. Christian, come detto, gioca secondo centro, ma lo vedi che non è a suo agio: certo, corre negli spazi, ma non ha dalla sua la capacità di essere decisivo nello stretto, né le grandi capacità di distribuzione dell’ovale dei califfi del ruolo. Si dà da fare, esce dal campo sempre distrutto, ma a quei livelli non può essere un centro. Hart ammetterà più avanti che forse sarebbe stato meglio mettere Umaga centro, Wilson e Lomu ali e Cullen estremo, quando però la Web Ellis Cup era già a Canberra.

Nei primi test post Coppa del Mondo Cullen si riprende la sua maglia numero 15, segnando altre sette mete in quattro incontri del Tri Nations. Poi però il ginocchio fa crac e deve saltare gran parte del 2001, dichiarandosi non disponibile per il tour autunnale europeo.

Solo che qui accade qualcosa, visto che il nuovo selezionatore degli All Blacks, John Mitchell, decide di escluderlo in conferenza stampa. Il rapporto tra i due non decollerà mai, ma proprio mai. Certo, Christian torna in Nazionale nel 2002 e segna altre quattro mete in cinque incontri, ma l’impressione è che per convincere Mitchell ci voglia altro. Altro da altre otto mete in dodici incontri con gli Hurricanes. Fanno 56 mete in sette stagioni, nel 2003 è record indiscusso. Verrà battuto solamente da Doug Howlett e Joe Roff, entrambi giocando molte più partite di Cullen.

Il 2003 è l’anno della Coppa del Mondo. In Nuova Zelanda si stanno ancora leccando le ferite per il quarto posto ottenuto quattro anni prima e non sarebbe male fare uno scherzetto ai Wallabies, detentori del trofeo e paese ospitante. Christian ha una concorrenza siderale: Leon McDonald, Ben Blair e Mils Muliaina sono compagni e avversari tosti, e infatti Mitchell li chiama tutti e tre, Cullen rimane a casa. Sono in molti a sollevare critiche, facendo notare che uno come l’estremo degli Hurricanes Mitchell non ce l’ha in rosa.

E uno spiraglio sembra aprirsi quando Blair si infortuna.

Eh no, adesso la strada è spianata.

Adesso non può non chiamarlo.

E infatti Mitchell chiama Ben Atiga, ventenne di Auckland senza contratto.

In conferenza stampa il coach parla di Cullen al passato.

È stato un grande giocatore, ha dato tanto, ma ora largo ai giovani.

Ventisette anni, evidentemente, sono età da pensione.

Christian Cullen prende atto e decide di cambiare aria.

Si trasferisce in Irlanda, gioca col Munster per quattro stagioni, ma una spalla improvvisamente ballerina gli impedisce di dare un contributo maggiore ai suoi. Si ritira nel 2007, ad appena trentun anni.

Trentun anni, cinquantotto caps con gli All Blacks, quarantasei mete segnate con il completo nero e la felce argentata sul cuore. Altre cinquantasei mete segnate con gli Hurricanes, una medaglia d’oro ai Giochi del Commonwealth con la Nazionale Seven. Ma pure una Coppa del Mondo giocata fuori ruolo, un’altra saltata perché un allenatore da quell’orecchio (e da quell’occhio) sembrava non voler capire troppo, due o tre infortuni che hanno limitato una carriera che avrebbe potuto abbracciare altro.

Ora.

Siete ancora sicuri di voler ancora mandare a quel paese Christian Cullen?

No, perché carriere enormi come queste, con un po’ di fortuna in più, avrebbero potuto essere enormi.

Avrebbero potuto regalare momenti forse un giorno leggendari, storie da incastonare in una Storia ovale più grande.

Anche gli All Blacks, anche quelli più forti, sanno che qualche volta avrebbero potuto fare di meglio.

Che qualche volta avrebbero meritato di meglio.

Christian lo sapeva, Christian lo sa. E allora due rimpianti qui e là se li merita pure lui.

Perché anche gli All Blacks sono umani.

Solitamente quando non possono giocare a rugby.