Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani. Anche se proprio no, non sembra mica così. Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta: ci sarebbe Julian Savea, che ha segnato tre mete. C’è Naholo, che si è rotto una tibia due mesi fa e corre come un levriero. Ci sarebbe Dan Carter, che se non sai chi scegliere con lui non sbagli. La lista potrebbe anche continuare.
No, nessuno di loro. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino propriamente dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per tutti i genitori del mondo si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti. Lui non ci crede, agita le mani come per dire “Ma che cazzo state dicendo?”, i compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena di un cinquantino e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.
Man of the Match contro quelli. Non male per uno che fino ai 17 anni giocava a basket a discreti livelli. Non è nemmeno difficile crederci, perché la generazione nata negli anni ’80 in Georgia con la palla a spicchi non è per nulla male: ci sono Pachulia, Sanikidze, Markoishvili, Shermadini, tutti passati per l’Europa che conta, qualcuno anche in Italia. Uno con la fisicità di Gorgodze ci potrebbe stare anche bene, arriva anche a guadagnare qualche soldo, solo che ad inizio secolo si fa da parte: “Si, bello il basket, bello far canestro..ma vorrei qualcosa di più fisico”.
Grazie, per uno cresciuto con il Lelo burti, sport in cui bisogna portare una palla di 18 chili dall’altra parte del villaggio nonostante tutti gli abitanti di quel villaggio lo vogliano fermare con le brutte il basket è quasi uno stare sulle punte. E allora pensa al rugby, che del lelo burti, in fondo, è il fratello che ha studiato. Ricambiato. Strappa un contratto coi Lelos, formazione del massimo campionato georgiano, seconda linea. Nel 2003, a soli due anni dal passaggio alla palla ovale, debutta in Nazionale e rischia di partecipare alla Coppa del Mondo australiana, la prima per i caucasici, ma non è ancora il momento.
Dal 2004 diventa titolare quasi inamovibile in seconda linea, se per voi due partenze dalla panchina su 64 partite sono un dettaglio togliete pure il “quasi”. La vita sul parquet gli ha lasciato in eredità una mobilità e una velocità sui primi passi che raramente si vedono in bestioni del genere. E le mani sono calde, delicate, non maltrattano mai l’ovale sebbene abbiano le dimensioni di due pale. È un ragazzo calmo, misurato, con dei valori intoccabili (la nascita dei figli vale più di essere migliore in campo contro gli All Blacks), ma in campo, quando entra in trance agonistica, diventa una furia. Anche troppo, visti i 16 cartellini gialli che si è visto sventolare davanti dal 2007 in poi. Viene cacciato due volte per provocata rissa, ma personaggioni come Nallet, Maestri e altri orchi della mischia di pari stazza imparano che con Gulliver non si scherza. Placca qualsiasi cosa gli passi davanti, e sempre in avanzamento. Quando ha la palla una mano è sempre impegnata a sfrontinare l’avversario. E se non basta la mano arriva tutto il resto del corpo a traino. Più che di placcare un animale del genere qui si parla di immolarsi. In un campionato come quello georgiano uno così è veramente Gulliver, il protagonista del romanzo di Jonathan Swift, che deve essere schienato e legato dai lillipuziani perché ci possa essere un confronto. Ma siccome nessuno lo riesce a legare, né in partita né per le strade di Tbilisi, nel 2005 firma per Montpellier e approda nel Top 14.
In Francia l’asticella si alza, sia perché qui c’è il meglio del rugby europeo (e non solo), sia perché un po’ di puzzetta sotto il naso verso stranieri “non eletti” (e ci buttiamo dentro anche noi) i cuginetti transalpini l’hanno sempre avuta. La perderanno, e anche molto, ma all’epoca un Gorgodze non ancora del tutto sgrezzato si accomoda in panchina. Nel 2007 alla Coppa del Mondo la Georgia fa una signora apparizione: mette in crisi per un tempo i Pumas, rischia di fare il colpo del secolo contro l’Irlanda e batte nettamente la Namibia. La Georgia comincia ad esportare piloni e tallonatori, ha una mischia impressionante per ruvidezza e compattezza, Gorgodze firma per Brive, ma poi cambia idea e torna a Montpellier, dove trova sempre più spazio. Nel 2009 Tim Lane, ct australiano dei Lelos, lo prova in terza linea e a numero 8, alternandolo in quest’ultimo ruolo con Basilaia, altro discreto toro cresciuto a pane e lelo. Dalla terza linea non lo sposta più nessuno.
Anche perché lì dietro a spingere, a placcare e nel caso ad avanzare con la palla in mano c’è più spazio. Ed anche più gusto. Nel 2010 sulla panchina di Montpellier arriva Fabien Galthié, uno degli eroi di Twickenham nel 1999 contro gli All Blacks. Se lo studia bene, poi lo sposta in terza linea. Ecco, allacciatevi le cinture, perché la stagione 2010/2011 è spettacolare: il Montpellier ha una ossatura francese, ci sono tre giovanissime colonne come Ouedraogo, Trinh-Duc e Tomas, un estremo come Thiery e un cecchino come l’argentino Bustos Moyano. Ma il meglio è nella mischia: due georgiani come Gorgodze e Jgenti, pilone, i due francesi Fakate e Rofes (che sarà internazionale per la Spagna), il figiano Matadigo e il Puma Figallo. Una mostruosità di chili e muscoli. Gli uomini di Galthiè restano a lungo nelle prime posizioni, poi hanno un calo nel finale della stagione. Prima dell’ultima giornata sono settimi, fuori dai play off, ma battono col bonus il Tolone e salgono di una posizione. Al barrage battono Castres di un punto, in semifinale trovano il Racing Metro di Pierre Berbizier. È un match incredibile: vanno avanti 23 a 6 Gorgodze e compagni, i parigini sorpassano sul 25 a 23, poi Bustos Moyano indovina i pali da 40 metri. Wisnieski, top scorer del torneo, manca i pali col drop, è finale. Il Piccolo Padre è enorme per sacrificio in difesa nel finale, placca tutto quel che gli arriva a tiro, ma in finale contro il Tolosa la favola dura poco più di un’ora. Il Montpellier non si ripeterà più a questi livelli, Gorgodze si, ma con altri colori. Passerà a Tolone nel 2014, non proprio una squadretta di scappati di casa.
Ma prima c’è il Mondiale neozelandese.
Gorgodze viene nominato Man of the Match contro l’Inghilterra. Il risultato è bugiardo, 44 a 10, con gli inglesi che per un’ora non capiscono nulla in mischia e nei breakdown. Vengono graziati solo dalla tremenda giornata al piede di Kvirikashvili. Alla Scozia serve un grande Dan Parks per vincere, contro i Pumas, re indiscussi con i primi 8 uomini, non è cosa, ma si lotta più di altre volte. Si vince contro la Romania, meta neanche a farlo apposta di Mamuka, che passa attraverso due uomini, uno dei quali attaccato ai suoi piedi, e segna come se nulla fosse. Sarà ancora il migliore in campo.
Ad allenare i Lelos arriva un neozelandese, Milton Haig, ex assistant coach dei Chiefs. Ecco, altro salto di qualità. Moltissimi georgiani ormai giocano in Francia, Top 14 e affini, la svolta è vicina. Debuttano nel rugby che conta in amichevole contro l’Irlanda a novembre 2014, poi per il Mondiale 2015 mettono un cerchietto rosso sul nome “Tonga”: è la prima partita del girone, a Gloucester.
È qui che si fa la storia.
I tongani, se solo volessero, avrebbero potenzialità tecniche e fisiche per tener testa a chiunque, ma se hanno la giornata storta può succedere di tutto. Anche che i georgiani, che tecnicamente ne hanno molto meno, restino attaccati al match con una difesa impressionante per aggressività e avanzamento. E alla mischia, of course. Le Aquile di mare vanno in tilt, Gorgodze sfonda nel primo tempo trovando le guardie completamente distratte. Nella ripresa ricominciano le danze: ritmi bassi, breakdown infernali, e seconda meta georgiana con Tkhilaishvili. I tongani non ci capiscono praticamente nulla. Si svegliano solo nel finale, quando sono in superiorità numerica, riaprono il match. Ma dall’altra parte non ci stanno, e il risultato non cambia più. Spuntano bandiere georgiane ovunque, spunta anche qualche statistica: 201 placcaggi per i georgiani, 27 per Gulliver, che in campo è praticamente ovunque. Indovinate chi è il migliore in campo? Tocca poi ai Pumas, ed è sempre la stessa storia: si regge bene un tempo, poi loro hanno più gambe, finisce tanti a pochi.
Poi ci sono loro, gli All Blacks, che per l’occasione ne mettono tanti a riposo. Si, tutto quel che volete, ma in campo ci sono Dan Carter, Julian Savea, Richie McCaw..se volete andiamo avanti, occhio a non stancarvi.
Segna subito Naholo, la cui tibia è stata guarita da uno stregone due mesi prima dei Mondiali. Solo che nessuno sa quale sia quella fratturata, pare un Forrest Gump furente su e giù per il campo. Sembra la replica del match contro l’Argentina, quando però Tsiklauri, estremo che da questo momento in poi ha beveraggi pagati in ogni bar di Tbilisi, calcia a seguire e si riscopre da solo verso la meta. Saranno anche gli All Blacks, ma intanto è 7 pari, e questo non glielo toglie nessuno.
Solo che le cilindrate sono diverse, e si vede.
Segnano 4 mete in 22 minuti, vanno 22 a 10. Ma poi per mezz’ora effettiva questi non segnano più. In questi casi, di solito, è sempre una questione di piccole vittorie, di guerriglie che scompigliano i capelli ai giganti o poco più, ma fanno morale. Prendete il calcio del 12 a 10: Gorgodze affonda le mani nel raggruppamento, sembra un escavatore. Puoi essere anche un All Black in odore di titolo, ma quello è tenuto e lo devi lasciare. I tuoi compagni ti vedono e si rincuorano. È il leading by example, bellezza, e quei 120 chili di uomo li seguiresti ovunque.
Sono piccoli eroismi di grandi cuori, ma alla lunga si pagano. Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani. Anche se, a ben guardare, il difetto proprio non glielo trovi.
Ma dov’è finito Gorgodze?
Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. Poi basta, che c’è sempre una Namibia da affrontare e, possibilmente, battere. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta, ma stavolta il migliore non veste di nero. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino propriamentr dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per tutti i genitori di questo mondo si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti.
Non se lo aspetta, ha lo sguardo del ragazzino che ha ricevuto il cinquantino in regalo dai suoi nonostante la pagella fosse più da taglio che da promozione. Emozionato, sorpreso e quasi commosso. I compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena del cinquantino qui sopra menzionato e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.
Tutti con Mamuka, col quale ti puoi confrontare solo se lo prendi, lo fai cadere e lo leghi a terra, solo se fai il lillipuziano. Perché Gulliver lo puoi contenere solo così. Anche se hai una maglia nera addosso e alzerai la Coppa del Mondo. Anche dopo il ritiro, anche dopo questa stagione.
Ci mancherete, Gulliver, tu e i tuoi placcaggi.