La prossima volta voglio nascere in Uruguay.

A Montevideo, ma non è obbligatorio.

Mi piacerebbe ereditare quell’accento musicale, quello spagnolo dolcemente dondolato di qua e di là.

Avercela con gli argentini, metterli in tutte le barzellette possibili, prenderli per il culo, sapendo che di là mi riserveranno lo stesso trattamento.

Fare sport. Giocare a rugby, forse.

Massì, giocare a rugby. Essere, forse, un giorno, un Tero. Una pavoncella del Cile, ma in Uruguay.

Piccolo e leggero, ma compatto. Duro a morire, con ali solide e appuntite.

Un uccello rugbista, grintoso e lucido fino alla fine.

Non è un caso che i giocatori della Nazionale uruguagia si chiamino i Los Teros.

Li vedi scendere in campo a Kamaishi e ti accorgi subito perché li chiamano così: piccoli, compatti, in pochi raggiungono i 100 chili, in meno raggiungono il metro e novanta. No, non devono esserci molti granatieri da quelle parti.

La cosa fa ancora più impressione se si accostano ai loro avversari, i figiani.

Grossi da far spavento, ma con cingoli e ruote nelle gambe.

Corrono come lepri, asfaltano come tank lanciati.

Per fortuna esistono i numeri di maglia, altrimenti non riconosceresti i ruoli. Costretti a giocare le mischie e le touche, a usare i punti d’incontro, altrimenti non avrebbero rivali. Altri avversari, fisicamente più dotati e possenti, contro di loro sembrerebbero vittime sacrificali. Figuratevi loro, gli uruguagi.

Segnano due mete, i figiani, ma nel frattempo vorremmo tutti essere Santiago Arata, numero 9 di settanta chili, buoni a spanne per entrare in armadi grandi quanto i suoi avversari. E buoni per evitarli, quegli armadi, per andare oltre in mezzo ai pali. Vorremmo essere Diana e Cat, che finalizza una meta che gli avversari, coi trequarti, oggi non sono riusciti nemmeno ad immaginare.

Vorrei essere Felipe Berchesi. Mediano di apertura fisicamente sotto gli standard. Giocava nelle serie minori italiane, a Badia Polesine. Calmo, tranquillo all’inverosimile, capitalizza tutti gli sforzi dei suoi grazie a un piede degno di una Coppa del Mondo. Quel piede lo aveva fatto conoscere al salotto buono ovale quattro anni fa, al debutto contro il Galles. Segnò sei punti consecutivi mandando in vantaggio i suoi, illudendo tutti che, udite udite, il match non era ancora morto e sepolto.

Vantaggio effimero, buoni tutti a far punti così, dissero.

A Kamaishi tiene a distanza gli inseguitori quando la lancetta della riserva barcolla pericolosamente. Prende botte, mangia la polvere dei placcaggi avversari, ma non si fa mai prendere dal panico, né lascia mai delusi i suoi compagni.

E vorrei essere Esteban Menezes, discreta terza linea passata anche per l’Italia, ottimo stratega oggi. Uno che ha fatto la gavetta, che non ha sbattuto i pugni entusiasti alla prima meta come i suoi predecessori nel 2015. Che ha disegnato una linea Maginot incredibile, sempre in grado di riproporsi, ammaccata ma mai pericolante. Con difetti, con smagliature, perché gli All Blacks mica passano spesso per il Rio de la Plata, ma commovente per abnegazione e capacità di giocarsela coi propri limiti prima ancora che con gli avversari.

Perché le Figi tornano sotto, segnano più mete, ma si devono arrendere di fronte alla giornata disgraziata di Matavesi e Volavola,i calciatori designati. Di fronte ad un primo tempo che sembrava in discesa e invece è stato una cayenna. Di fronte ad una ripresa frenetica, ma non efficace. Non abbastanza, almeno.

In una prossima vita vorrei nascere uruguaiano.

Mi piacerebbe ereditare quell’accento musicale, quello spagnolo dolcemente dondolato di qua e di là.

Avercela con gli argentini, metterli in tutte le barzellette possibili, prenderli per il culo, sapendo che di là mi riserveranno lo stesso trattamento.

Fare sport. Giocare a rugby, forse.

Capire il prima possibile che se vorrò avere a che fare col rugby dovrò probabilmente volare via da qui.

Sapendo, però, di avere a disposizione ali dure, fisico leggero e compatto e uno spirito, quello charrua, che ti permette, certi giorni, di appenderti ad un miracolo.

E a lasciarlo andar via dopo aver toccato il terreno dell’area di meta.

Non è detto che tornerà, quello spirito.

Non subito, almeno.

O forse non in queste vesti.

Probabilmente giornate come questa non prevedranno repliche imminenti.

Ma basterà per sognare, e sorprendere ancora un po’tutti.

Gracias.