Il baratro è lì, a 35 minuti. Si chiama “eliminazione”, è una parola che brucia, sempre e comunque, che si parli di una semifinale mondiale o del torneo di briscola  del Bar Sport sotto casa. Cazzo se brucia. Soprattutto quando ti rendi conto di aver dato vita a quella che forse è la tua prova migliore di sempre. Certo, hai cominciato a nuotare giusto nel momento in cui l’acqua aveva cominciato ad arrivare all’altezza del gargarozzo. Tipico di chi ha le potenzialità, di chi sa a quanto può realmente andare il motore che si trova tra capelli e punta dei piedi e lo fa girare al minimo. Quanto mi danno fastidio quelli che fanno così. E finalmente, dopo aver a lungo vivacchiato, capisci che non può finire così, ma che se non fai qualcosa resterai tra quelli che ci hanno provato (che sono tanti, eh), ma che alla fine niente hanno potuto. Qualcosa come un miracolo, ma più radicato al suolo. Sangue, sudore, anima. Perché per sconfiggere trattori che solo per sbaglio hanno la maglia numero 11 sulla schiena e ti stanno facendo malissimo, per superare avversari che pensavi di aver imbrigliato ma che di colpo tornano apparentemente imprendibili ti devi inventare qualcosa di diverso dalle sole preghiere. Uno straccio di piano B che vada oltre ai Padre Nostro e alle Ave Maria. Che vada oltre, per esempio, alle dita incrociate quando il capo ti chiama in amministrazione per dirti che la tua produzione, a forza di strisciare, ha le ginocchia sbucciate.

Qualcosa che nella vostra, e nostra, routine quotidiana non esiste.

Di solito.

O tende a durare poco, il tempo di una fiammata.

Qualcosa di più grande.

E siccome qui si parla di rugby e non di catasto, di rosari o vita d’ufficio, questa è la storia di trenta minuti che forse non si sono mai più visti nel mondo ovale, di una mezz’ora inspiegabile a caldo. E pure a freddo, perché appena le trovi e ti viene voglia di rivederla le perdi un’altra volta. Non escono proprio più. Questa è la storia di come una squadra con un talento spaventoso riesce quasi a mandare tutto in malora e a ritrovarsi giusto in tempo per vivere una vita da talenti pienamente sfruttati. Oh, non è che ne abbiamo tante a disposizione, di vite del genere, ma se sfruttate a dovere, se opportunamente afferrate permettono di compiere miracoli. Anche se da qualche mese la catena è inesorabilmente giù. Anche davanti a quelli che da qualche anno sono l’immagine non solo sportiva, ma anche commerciale del rugby. Quelli che si vestono di nero, ma si tengono una felce argentata sul cuore e nel cuore. Quelli che accolgono gli avversari con l’haka. Quelli che qualche anno prima avevano messo all’ala un ragazzone tongano di 120 chili e hanno cambiato per sempre questo sport.

Si, esatto, gli All Blacks. Hanno appena vinto il Tri Nations perdendo un solo match, l’ultimo, a Sidney. Sono i principali e obbligatori favoriti per il Mondiale 1999 e hanno uno squadrone. C’è Andrew Mehrtens in mediana insieme al nuovo golden boy dell’Emisfero Sud, Byron Kelleher, c’è capitan Taine Randell, un numero 8 che ha mani e piedi di velluto. C’è Zinzan Brooke schierato seconda linea. Poi ci sono i trequarti. John Hart, l’allenatore, ha a disposizione quella che di fatto è la declinazione ovale del Brasile campione del mondo nel 1970. Talento, corse, fisicità, fantasia. Non è che li possa tanto allenare, quei mostri lì, e perciò dà loro carta bianca. Non senza andare incontro a critiche. Se pensate che essere il selezionatore degli All Blacks sia il lavoro più bello del mondo, beh, forse è meglio che non mandiate il vostro curriculum in Federazione. Fidatevi.

Prendete Chris Cullen, per esempio. È il meraviglioso estremo degli Highlanders, ha frequenze di corsa pazzesche, una capacità di elusione devastante e una media mete spaventosa. Hart lo mette centro.

Centro? “Quel” Chris Cullen? Si scomunicherebbe per molto meno, da quelle parti.

Ma Hart non ha sorteggiato i numeri alla tombola, la sua non è un’idea malvagia.

Non se ad estremo hai a disposizione Jeff Wilson, uno che lo puoi mettere a praticare qualsiasi sport e aspettare, tanto lui prima o poi va in Nazionale. Sceglie il rugby e arriva a giocare un Mondiale con gli All Blacks, va a giocare a cricket e te lo ritrovi pure lì a giocare in Nazionale. A livello giovanile è pure un fenomeno a basket e, appena prova l’atletica leggera, lo convocano per le staffette. Come fai a lasciarlo fuori uno così?

Sarebbe un’ala fenomenale, lo mettono ad estremo, e i motivi sono due.

E, puntualmente, giocano entrambi all’ala. Mai peccato d’abbondanza, da quelle parti.

Uno è il futuro capitano, dreadlocks al vento, a vent’anni è passato anche da Viadana, nell’allora serie A2, si chiama Tana Umaga, e uno con quella corsa, quel pensiero veloce e quella capacità di venirsi a prendere il lavoro da lì non lo puoi tanto muovere. L’altro è un ragazzone di un metro e novanta per 120 chili, di origine tongana. Si chiama Jonah Lomu e se non ne avete mai sentito parlare non sono sicuro di volervi conoscere. No davvero, in caso state alla larga. A dire la verità nelle gerarchie iniziali di Hart Lomu avrebbe dovuto partire dalla panchina, con Chris Cullen all’ala. Uno così, diceva, con quella fisicità e quella capacità di macinare metri e avversari, era fatto apposta per entrare nella ripresa e fare la differenza, mentre Chris era più adatto al gioco corale, era più inserito negli schemi di squadra e, in caso di sofferenza dietro, avrebbe potuto essere un ottimo secondo estremo.

Ma Daryl Gibson, centro il cui fratello ha giocato a Venezia una decina di anni fa, non è al meglio, e allora tutti dentro. Anche perché quel Lomu è dal Tri Nations che ara avversari e conquista estimatori, non è che si può sempre far finta di nulla.

Dei grilli di Hart, però, nessuno frega niente.

Anche perché le prime partite sono una continua serie di dimostrazioni di forza. A volte, a dispetto della Santa Barbara che schierano, non sono nemmeno divertenti: al debutto giochicchiano per 40 minuti, poi sistemano Tonga. A Twickenham l’Inghilterra va sotto, recupera col piede di Wilkinson, poi Lomu prende palla a metà campo e ciao a tutti. Contro gli azzurri in completo disarmo finisce 101 a 3 nonostante in molti se ne stiano in panchina e Lomu nel finale giochi pure terza linea. Ai quarti affrontano la Scozia, dopo 50 minuti è 30 a 6, poi è surplace con l’orgoglio scozzese a farla da padrone a Murrayfield, finisce 30 a 18. È semifinale.

E come fai a fermarli questi?

Risultati dagli altri campi: l’emisfero sud è nettamente superiore, le britanniche annaspano o, quando sembrano in grado di giocarsela, spunta tale Jannie de Beer e fanno cinque drop in mezzo ai pali, scontrino alla cassa e grazie. L’Australia, nel frattempo, ha subito una sola meta in tutto il torneo. Non male, per essere in Europa. Il calendario è amico dei neozelandesi, visto che l’altra semifinale è una questione tra il Sudafrica di Nick Mallett e l’Australia. Una delle due avversarie più pericolose di sicuro è evitata.

Basta battere la Francia e ci si gioca il Mondiale.

No, non è facile, ma con quella squadra lì è difficile immaginare qualcosa di diverso da una vittoria. Anche perché i francesi di Skrela e Villepreux, se possiamo usare un eufemismo, non stanno passando un bel momento. Ultimi al 5 Nazioni, strappano a fatica la Coppa Europa all’Italia con un 30 a 19 arrotondato solamente nel finale e con i carichi da undicu in campo, poi vanno in tournée nel Pacifico. Vincono spuntando sangue contro Samoa, perdono contro Tonga e due volte contro gli All Blacks alla vigilia del Tri Nations. La seconda volta finisce addirittura 54 a 7, è un tracollo e, insieme, un sospiro di sollievo, dipende dove vi girate a guardare: 5 anni prima, infatti, proprio in Nuova Zelanda era arrivata una clamorosa vittoria ospite con tanto di “meta dell’altro mondo”, una azione dei trequarti francesi iniziata da Saint-André nei propri 22 e terminata con Sadourny dall’altra parte della linea bianca. Nessuno, da allora, è mai più uscito vincitore da Eden Park. Non ve lo diranno mai i neozelandesi, ma ogni volta che giocano con i transalpini un po’ di paura ce l’hanno. Hanno avanti che sono praticamente degli orchi, e non necessariamente perché oltralpe la Bellezza abbia marcato visita. Trequarti con gambe da etoile e mediani imperscrutabili. E poi sono latini, umorali, basta premere l’interruttore e non sai più dove girarti, sono ordigni con la miccia corta e neanche tanto progettata bene. Te li ritrovi ovunque: finte, controfinte, contrattacchi.

Tutta questa capacità di incasinare la vita agli avversari passa sotto un termine inglese, French Flair, che in quanto scritto con la lingua del Bardo non è che stia poi così simpatico a sud di Dover. Detto termine, però, se opportunamente coniugato in campo, non sta simpatico nemmeno agli anglosassoni, neppure a quelli più a sud.

E finché non se ne vede traccia sono tutti più tranquilli.

Tranquillissimi, pure troppo.

Le Bleus sono inseriti in un girone pressoché semplice, con Canada, Namibia e Fiji. Ma giocano male, malissimo. Sono involuti da far spavento. I nomi , sulla carta, non sono nemmeno male: dietro ci sono Garbajosa, N’tamack e Bernat-Salles, c’è Dourthe, in mediana gioca titolare Thomas Castaignède, davanti ci sono Pelous, Benazzi, Tournaire, Juillet, Olivier Magne,Ibanez, ma il collettivo non gira. E, cosa ben più grave di una qualsiasi partita orribile, sanno benissimo come sono arrivati in semifinale: il Canada del cecchino Gareth Rees si scioglie sul più bello, con i modesti namibiani arrivano sei mete ma il gioco latita. Con le Fiji, invece, a prendere la scena è l’arbitro, Paddy O’Brien, che ne combina di tutti i colori. Nell’ordine assegna una meta ai francesi viziata da un passaggio in avanti, poi si ravvede e concede ai Bleus “solo” un calcio piazzato, annulla una meta ai figiani per un avanti inesistente, poi il capolavoro: mischia francese nei 5 metri figiani, il tallonatore transalpino stappa, meta tecnica. La Francia alla fine vince 28 a 19 e finisce prima nel girone. I figiani, forse il miglior collettivo figiano ad una Coppa del Mondo insieme a quello del 2007, usciranno contro l’Inghilterra nei playoff. Cornuti e mazziati. Ai quarti li aspettano i durissimi Pumas, reduci dall’impresa contro l’Irlanda e dati per favoriti da una certa parte di stampa. E invece finalmente si svegliano Les Bleus: dopo 11 minuti è già 17 a 0, il gioco è a tratti entusiasmante, i giocatori non sembrano nemmeno gli stessi della fase a gironi. Non è che duri molto: i Pumas rimontano, li mettono in difficoltà, ma lo sforzo per recuperare lo strappo iniziale li spegne su più bello, finisce 47 a 26. Nel frattempo però si sono infortunati Pierre Mignoni, numero 9 titolare, che aveva sostituito Philippe Carbonneau, a sua volta costretto al forfait, e Thomas Castaignède, numero 10. Skrela richiama titolare Fabien Galthié e gli affianca il centro Christophe Lamaison. Poi ridisegna i trequarti, mettendo Emile N’Tamack a primo centro e Garbajosa estremo, lasciando alle ali il folletto Dominici e il canuto Philippe Bernat-Salles.

Twickenham, il 31 ottobre del 1999, assiste ad una haka feroce. Quelli di là sono subito riconoscibili, sono quelli che stanno cominciando a portare il rugby nelle televisioni mondiali, quelli che prendono a spallate furgoni e che nel frattempo trovano il tempo di cromare ossa avversarie in campo. È come se, oltre ai giocatori in campo e agli spiriti degli antenati da loro evocati, dietro ci sia un’aura ancora più invalicabile, quella degli spettatori che li vedono come i portatori sani della palla ovale. Il resto degli avversari?

Nemici, “cattivi”.

Eppure i galletti partono bene, è Lamaison a centrare subito i pali con un piazzato. Mehrtens risponde con due calci. Ne prova altri due, anche dalla distanza, ma nulla di fatto. Non sono tranquilli, i tuttineri, e forse ne hanno ben donde.

No, non puoi osare tutto contro i francesi.

Non dall’inizio, almeno.

Al 23’ Lamaison lancia Benazzi a metà campo, va a terra dopo due metri. L’inerzia francese è buona, Galthié serve Dominici che fugge a metà campo e lascia sul posto Wilson. Cullen è costretto ad un placcaggio disperato, riesce in qualche modo a tirarlo giù in pieni 22. La difesa però è sbilanciata, Galthié apre e Lamaison va in mezzo ai pali, Francia di nuovo avanti.  Giocano bene i francesi, eccome. Non hanno le stimmate dei fenomeni, ma ad ogni occasione portano a casa punti. Benazzi fa legna, Magne è ovunque, Galthié fa uscire ovali velocissimi. E poi c’è quel Garbajosa. È un ragazzino, non ha ancora 23 anni, ma là dietro dietro è una sicurezza. È lì per dare imprevedibilità al gioco dei trequarti, ad aggiungere brio su brio, ma tante volte non disdegna la liberazione al piede. Dà dei colpi di mortaio da cinquanta, sessanta metri  che sembrano pedate al vento, a togliere pressione e a regalare possessi.

Sembrano, ma guarda caso ogni volta scavalcano il triangolo allargato.

E, guarda caso, vanno tutti nel settore presidiato da Lomu.

Già, perché Villepreux e Skrela si sono studiati per bene due o tre partite degli All Blacks e hanno centrato la tattica: Jonah Lomu in attacco è praticamente illegale, ma quando si tratta di subire la tattica avversaria non è un fulmine di guerra. Nell’unica partita persa al Tri Nations Stephen Larkham l’ha massacrato di candele. La stessa cosa ha provato a farla Gregor Townsend, numero 10 scozzese, ai quarti. Lomu in fase difensiva, se sotto pressione, è costretto a calciare, con risultati non proprio lusinghieri. O a tergiversare, perdendo così metri di campo preziosi. Lamaison e Garbajosa bombardano di continuo al piede, gli All Blacks segnano ancora, ma solo dalla piazzola con Mehrtens. No, la disciplina non è il piatto forte dei francesi oggi, ma se vuoi rimanere attaccato al match e far sentire il tuo fiato sul collo dell’avversario, in certi casi, devi giocare al limite. Superarlo tutte le volte che serve.

Poi però un pallone perso regala una chance a Lomu, e indovinate come va a finire.

Con tutti i trequarti avversari che provano a prenderlo, ma niente.

Con Benazzi che rimbalza e torna da dove se ne era venuto.

Con il “pacifico” numero 11 che si rialza da terra come se avesse appena finito di giocare col suo cagnolone.

Stop. Fermiamoci un attimo e lasciate qui la partita.

Andate un momento su Youtube, o su qualsiasi portale simile, e digitate “Nemani Nadolo”.

Vi usciranno le gesta di  questo trequarti figiano di 125 chili.

Gli avversari non lo fermano mai, a meno che non decidano di placcarlo subito, forte e alle gambe. Senza peraltro aumentare sensibilmente le proprie percentuali di riuscita.

Bene, ora pensateci un attimo: se faticano a placcare nel rugby muscolare e muscoloso del 2018 un giocatore fisicamente simile al fenomeno con la 11 nera addosso, immaginate cosa potesse essere Lomu vent’anni fa. Lomu al quale, onestamente, il buon Nadolo assomiglia fisicamente ma per tutto il resto può giusto sciogliere i lacci delle scarpe.

Torniamo alla partita. Perché la Francia mica si arrende: Magne buca la difesa, brucia Wilson, sorprende Lomu e calcia a seguire. Si porta dietro i levrieri, le ali, ma per una questione di rimbalzi arrivano prima i tuttineri. Mehrtens poi calcia ancora tra i pali, il primo tempo finisce 17 a 10. E dopo 4 minuti nella ripresa Lomu fa ancora danni. Sembra quasi intoccabile, con i trequarti transalpini che in difesa sembrano tanti volenterosi giocatori di una selezione giovanile.

Tanti fratellini che provano a buttar giù il fratellone appena arrivato a casa da un lungo viaggio.

Lo puoi anche abbozzare un placcaggio, ma quello lì, se prende velocità, mica va giù. Ventiquattro a dieci.

Il baratro è lì, a 35 minuti. Si chiama “eliminazione”.

No cazzo, non oggi.

Non giocando così bene.

Non contro questi All Blacks, che Lomu a parte oggi stanno facendo il compitino. Ma pure lui non è che stia facendo il fenomeno, sia chiaro. Lo vedi che hanno paura, lo vedi che sono costretti a pensare a quello che stanno facendo.

E vedi pure, se li guardi bene, che la partita mica ce l’hanno tanto in mano.

Sudano, imprecano. Ma non si parlano, non si guardano negli occhi.

Fategliela fare ora l’haka, non ne farebbero una giusta.

E allora bisogna inventarsi qualcosa.

A prendere per mano tutti sono ancora Magne e Benazzi, Dominici è commovente nel cercare di sfondare contro giocatori di cui al massimo potrebbe essere il ripieno. Poi Lamaison chiama la giocata, Galthié fa uscire la palla.

Drop.

Senza vantaggio, a perdere.

Dentro. Pazzo. Folle. Francese.

Due minuti dopo ne butta dentro un altro, Twickenham si anima. Quello che prima era visibile solo ad un certo tipo di addetti ai lavori e/o a qualche fine psicologo ora diventa palese a tutti: gli All Blacks stanno cominciando a sfaldarsi. Diventano indisciplinati, sono irrigiditi dal terrore di una sconfitta che ancora non vedono, ed è brutto aver paura di cose lontane dall’essere palpabili.

Lamaison, nel frattempo, butta dentro altri due calci.

Curiosa la storia di “Titou”, ottimo numero 10 a Brive, ma sempre schierato centro in Nazionale. Skrela in cabina di regia gli preferisce Castaignède, giocatore elettrico, che muove bene i trequarti e li mette in costante avanzamento. È che un Lamaison con quel gioco tattico, con quelle percentuali e quella solidità, soprattutto mentale, non lo puoi tener fuori. Certo, gli manca il cambio di passo dei levrieri là dietro, ma se schieri un triangolo allargato di gente come Dominici, Garbajosa e Bernat-Salles uno così te lo puoi anche permettere.

Meno due, e adesso se ne riparla.

Gli All Blacks sudano freddo, avevano dato per chiusa una partita che all’improvviso è ancora lì, davanti ai loro occhi. Certi frangenti li rimetti in piedi solo se sei un fenomeno, e solo se hai il sangue della temperatura del ghiaccio. Se sul primo assunto si può pure ragionare (se avete dubbi rileggetevi la rosa), sulla seconda parte della frase, in questo momento della partita, ci sono parecchi dubbi. E infatti i neozelandesi perdono l’ennesima palla sanguinosa in un raggruppamento a metà campo. Galthié vede che la seconda linea di difesa è composta dal solo Mehrtens e calcia una palombella velenosissima. Se hai polmoni e cervello in avaria i rimbalzi di un calcio del genere sono qualcosa di incomprensibile. Sull’ovale, allora, si avventa il più piccolo della compagnia, Christophe Dominici, 172 centimetri che erano lì a mettere pressione e che invece spiccano il volo, nonostante capitan Randell provi a inseguirli, invano.

È sorpasso.

E sentire Twickenham cantare “Allez le Bleus” fa un certo effetto.

Gli All Blacks accusano pesantemente, non ne vengono più fuori.

E il French Flair che in tanti, da Wellington a Twickenham, avevano cercato di ostracizzare, esplode in tutta la sua virulenza.

Passano pochi minuti e la Francia vince una touche. Parte la maul, inarrestabile. Galthié, vista la superiorità schiacciante, potrebbe tranquillamente tenere la palla dentro e mandare all’aria oltre la linea tutti gli avanti neozelandesi, ma siccome da qualche minuto i galletti hanno deciso di ballare da soli il numero 9 serve Lamaison, che calcia a seguire. Il primo ad arrivare è Dourthe.

Twickenham viene giù.

È 36 a 24, fanno 26 a 0 di parziale.

La tempesta sembra finita, i francesi non possono reggere un ritmo del genere a lungo e quindi rallentano. Anche perché forse intuiscono che la partita è segnata. La Nuova Zelanda avrebbe anche i palloni per riprendersi e tornare in schia, ma manca la lucidità: cadono ovali su ovali, ci sono passaggi in avanti da mani nei capelli, falli di frustrazione che da gente con la maglia nera non ti aspetteresti mai.

E quando riescono ad arrivare in fondo è il sacrificio francese a fare miracoli.

Come quando Wilson e Umaga vengono fermati a due passi dalla meta.

Gli All Blacks forzano le giocate: Mehrtens chiama un loop, ma la pressione è altissima e il passaggio non è accurato. La palla cade, l’arbitro fa giocare il vantaggio. Lamaison, per non sbagliare, calcia lungo. Male che vada è mischia. L’ovale corre parecchio, dietro si scatena la bagarre, parola finalmente francese. Sarà per questo, o sarà perché i Bleus ne hanno veramente ancora tanto, sta di fatto che Magne brucia tutti, arriva sulla palla e calcia ancora. Alla volata accorrono pure trequarti inizialmente bruciati nello scatto dalla terza linea, con Bernat-Salles che al colpo di reni batte Wilson e schiaccia.

Quando si rialza, braccia al cielo, l’ala di Biarritz nell’esultanza ricorda un po’ Spillo Altobelli dopo il terzo gol ai tedeschi nel 1982. È l’esultanza di chi sa che lì si scrive la storia, che lì finisce il sentore del fango addosso e di chi può cominciare a pensare alla linea del traguardo.

È finita.

È il trionfo, anche se nello sprint finale abbiamo un po’ tutti tifato per Magne, per almeno vederlo marcare una meta al termine di una prestazione terminale. Anche se segna Wilson a pochi secondi dal termine, ma servirà solo per indorare la pillola. Gli dei sono caduti e il rumore si è sentito in tutto il mondo, prima ancora che a Twickenham. Si intona la Marsigliese in tribuna, e Londra non è mai stata così blu.

Il Mondiale finirà nelle mani australiane, le tossine di una partita del genere te le porti dentro e fai fatica a buttarle fuori.

Si fa male pure Magne, ma per un’ora di gioco è 18 a 12, poi la diga non regge più.

Perché i miracoli appartengono alle divinità, e quei francesi non lo erano.

Non lo erano nemmeno prima di quel 31 ottobre 1999.

Non lo saranno dopo.

E non lo sono stati nemmeno in quegli 80 minuti.

Sono uomini che non si sono lasciati cadere nel burrone nonostante tutto sembrasse contro. Gente che ha deciso, per una volta, di non vivacchiare, di non sopravvivere, e di dar fondo a tutto quello che Madre Natura o chi per lei, quel giorno, ha deciso di regalare. Quanto mi danno fastidio quelli che sopravvivono senza colpi di coda.

Sono quelli che hanno mandato a quel paese il loro capo dopo l’ennesimo insulto, quelli che hanno detto “Signore, io prego, ma intanto che arrivi io comincio a muovermi”.

E hanno fatto qualcosa che nella vostra, e nostra, routine quotidiana non esiste.

Qualcosa di grande.

Più che grande.

Enorme.