Ci sono stadi che non sono solo tribune e prato verde, spogliatoi e pali. No, nemmeno solo tifoserie. Certi stadi sono ben più di colate di cemento e zolle da risistemare di buzzo buono ogni stagione. Monumenti, templi. Prendete Twickenham, per esempio, che di strada ne ha fatta parecchia da quando da quelle parti si coltivavano cavoli. O L’Arms Park, sorto in una terra così attaccata alla palla ovale da aver partorito per mitosi il Millennium Stadium, altro discreto pezzo di storia gallese. O come l’Eden Park di Auckland.
No, si scherza. Niente può essere come l’Eden Park di Auckland.
D’altronde, se quella volta hanno deciso di chiamarlo come il biblico playground personale di Dio, un motivo in fondo ci sarà.
Certo, ce ne sono di più grandi, ce ne saranno di più esteticamente attraenti, ma giocare là dentro non è come giocare altrove. Soprattutto se, dall’altra parte del campo, vi ci trovate gli All Blacks. Eh, grazie, graziella e grazie al rugby. Certo che gli All Blacks sono ossi duri, lo sarebbero anche al “De Danieli” di Bassano del Grappa, provincia di Vicenza, per citare leggendari stadi di provincia a noi vicini. Ma lì, ad Auckland, bisogna avere qualcosa in più. Forse essere qualcosa in più.
O inventarsi qualcosa.
Ma, notate bene, quel qualcosa deve essere una roba che resta negli annali.
Deve averlo pensato pure Philippe Saint-André, ala di Montferrand, in quel grigio giorno di luglio del 1994. No, non sono gli All Blacks imbattibili del 1987, sono in pieno ricambio generazionale. Hanno perso in autunno in Inghilterra, ma soprattutto non hanno ancora trovato un degno erede di Grant Fox, numero 10 col piede dotato di radar e con una visione di gioco a cui, ai tempi, non si era abituati. Certo, ci sono un paio di ventenni che promettono bene, ma non li puoi bruciare così. a Christchurch, una settimana prima, hanno provato Simon Mannix, biondino di cui si qualche anno prima diceva un gran bene. Passerà, in quegli anni, pure per Treviso, sponda Tarvisium. Verrà epurato pur non dando il peggio di sè, si rifarà con una discreta carriera in Europa. Paga un po’ per tutti forse il rovescio contro i galletti, un 22 a 8 che fa male e che fa vivere una brutta settimana agli uomini di Laurie Mains. I neozelandesi sono nervosi, scatta pure una rissa in allenamento. Non tira una buona aria da quelle parti, è aria di cambiamento. Certo, ma se sei la nazionale neozelandese di rugby non puoi accontentarti di questo, devi saper dare risulati anche nel breve. E allora, con le vacche che non sono magre ma nemmeno le più floride mai viste, anche a quelle latitudini ci si aggrappa ai senatori: John Kirwan, agli sgoccioli di una carriera fenomenale, Zinzan Brooke, Frank Bunce, il leggendario Sean Fitzpatrick. Ad Auckland si presenta una squadra forse più quadrata di quella vista una settimana prima, una squadra forte,di sicuro più arrabbiata, ma non imbattibile.
Senza, come detto, un signore dei nembi propriamente detto.
Nemmeno loro riescono a crearne uno dal nulla in sette giorni.
Con Mannix rilasciato in regia ci va Stephen Bachop, che è un samoano già cappato dai pacifici alla Coppa del Mondo del 1991. Non convince molto Mains, soprattutto in difesa, ma per quantomeno pareggiare la serie può essere la scelta giusta dal punto di vista offensivo.
Sì, ma Bachop non calcia.
Non calciava nemmeno Mannix, pur accreditato di buone percentuali dalla piazzola. La responsabilità, come una settimana prima, va a Matthew Cooper, primo centro che a fine carriera andrà a dare una mano alla Croazia do coach Sumich nelle qualificazioni della Coppa del Mondo 1999. Il piede di Cooper, a questi livelli, non è il migliore dei mondi possibili, visto che a Christchurch un paio di suoi errori hanno tenuto distante i francesi nel primo tempo. Mains però decide che dalle sue tomaie deve passare il primo messaggio: guai a tenere i francesi davanti.
Si galvanizzano. Quando hanno la giornata storta riescono a perdere contro chiunque, ma se dai loro due grammi di sicurezza è la fine del mondo ovale conosciuto. Trovano energie impensabili, traiettorie mai umanamente definite prima, sicurezza (a volte pure sicumera) adamantina. Con Cooper senza mirino, i piedi di Deylaud e Lacroix sette giorni prima avevano scavato il solco decisivo, allungato poi dalla meta di Benetton. Guai a concedere loro pure la sterilità dalla piazzola. Bisogna tenerli lì, vicini nel punteggio, poi vedere se implodono. Nel dubbio il selezionatore francese, Pierre Berbizier, non cambia di una virgola la squadra.
Vorrei ben vedere, direte.
E avreste pure ragione.
La Francia è famosa per il suo gioco arioso, per una linea di trequarti dalle linee di corsa folli e dalle mani di fata, ci sono fenomeni come Ntamack, Philippe Sella, lo stesso Saint-André, l’estremo Sadourny. Ma i galletti sono tanto belli da vedere dietro quanto dannatamente efficaci davanti: Olivier Merle è soprannominato “l’uomo e mezzo” per quanto è grosso e letale nei raggruppamenti, Benazzi ha linee di corsa non dissimili dai suoi compagni là dietro e una bella dose di cingoli difficilmente arrestabili, Califano e Benezech sono due piloni cattivi come la peste. È una gran squadra, non è un caso che abbiano vinto una settimana fa. E non è nemmeno tutta colpa della brutta prestazione degli All Blacks.
Ad Auckland, per non sbagliare, vanno subito davanti con un piazzato di Lacroix. Gli All Blacks reagiscono più di nervo che col gioco, attaccano a testa bassa e vanno pure in vantaggio con due calci di Cooper, che però lascia altri 6 punti per strada. La Francia concede dal punto di vista disciplinare, ma obiettivamente non rischia mai di capitolare. Dal canto loro la strategia dei padroni di casa è abbastanza chiara: andiamo avanti a testate, loro fanno fallo e noi mettiamo dentro tre punti alla volta. È un piano che però, per funzionare, necessiterebbe di un calciatore dalle medie spropositate, cosa non pienamente realizzabile nell’interregno tra Grant Fox e Andrew Mehrtens. Berbizier, invece, sta facendo attuare ai suoi uomini un piano di gioco semplice ma molto efficace: vendere il più possibile, almeno all’inizio, il proprio campo. Tanto possesso e piede, soprattutto a scavalcare il triangolo avversario. Perché Kirwan è un giocatore fortissimo sì, e infatti dalle sue parti vanno poco. Vanno preferibilmente di là, dal ragazzino. Un tongano ex terza linea che, come Mannix, ha debuttato appena sette giorni prima. Si chiama Jonah Lomu, fisicamente è già un fattore, ma dal punto di vista tattico è ancora tutto da costruire. Ntamack, per dire, lo prende d’infilata più e più volte. Ed è proprio l’ala francese a sfruttare al meglio uno dei tanti azzardi neozelandesi del primo tempo: un paio di passaggi piatti della trequarti neozelandese innesca innescano la salita del numero 14 e ciao, lunga corsa in mezzo ai pali. Arriva un altro calcio per parte, Cooper ne sbaglia un altro, il primo tempo si chiude sul 13 a 9. Non giocano male gli All Blacks. Gli standard dei giorni belli sono un’altra cosa, ci sono errori che sarebbero difficilmente spiegabili in altre selezioni di nero vestite, ma in qualche modo sono in partita. Anche perché l’Eden Park sta dando una bella mano, lassù. Ci sono stadi che non sono solo tribune e prato verde, spogliatoi e pali. No, nemmeno solo tifoserie. Certi stadi sono ben più di colate di cemento e zolle da risistemare ogni stagione. Monumenti, templi.
Sono in 50000 a spingere la squadra secondo per secondo, fase per fase, in avanti per in avanti.
Ed esplode quando Sean Fitzpatrick va oltre di prepotenza a inizio ripresa e riporta avanti i suoi. La Francia, fino a qui quasi irreprensibile, comincia a capire che la partita la può pure perdere. E in certe partite bisogna avere il motore giusto per cambiare passo, altrimenti finisce male. Cooper e Deylaud si scambiano i piazzati, poi il numero 12 neozelandese allarga ancora il margine, 20 a 16. Manca un quarto d’ora al termine della partita, gli All Blacks ci credono, si può dimenticare la disfatta di Christchurch. Sono sopra, di poco ma sono sopra, i francesi cominciano a temere la sconfitta e quella calma apparente, quella semplicità di gioco e di strutture applicate fino a quel momento si stanno trasformando in frenesia. Auckland incita i suoi, è ora di uscire dal guscio. Pure Bachop, che per un’ora ha mantenuto gli scarpini puliti, comincia ad usare la tomaia per il territorio, confinando i francesi nei propri 22.
Berbizier in tribuna comincia ad innervosirsi. Si spazientisce del tutto Saint-André, uno dei senatori della squadra, quando uno dei pochi possessi riguadagnati viene calciato via senza troppi complimenti.
No, non così.
Non con questi All Blacks, operai più del solito, ma duri a morire come poche volte è capitato nella storia.
Bisogna inventarsi qualcosa di veramente importante per avere la meglio in quella bolgia. Bolgia, già, perché l’Eden Park non ha smesso un attimo di incitare i suoi. È un muro umano in cui, da distante, è difficile distinguere i volti. Non li distingui, ma li senti tutti. Manca poco, Bachop calcia ancora verso l’angolo, ma l’ovale se ne sta ben distante dalle linee. Non sarebbe un brutto calcio, ma gli All Blacks non salgono a fare pressione. Lo raccoglie Saint-André, che si guarda bene dal restituire il possesso e carica al centro. Due neozelandesi neanche lo vedono passare, lo placca Cooksley poco prima di metà campo. È un gran placcaggio quello della seconda linea, alto, a bloccare eventuali off-load. C’era già un francese pronto a raccogliere e involarsi a tutta. Arriva però Gonzalez, professione tallonatore, che allarga subito nel senso. La palla arriva a Deylaud, che fissa e serve Benazzi. Il flanker si trova davanti Lomu che ha anticipato la linea difensiva, quasi a far da spia. Benazzi, che non è nato ieri, finta il buco e serve all’esterno circumnavigando il ragazzino. Si farà, Lomu, si farà, ma non ora. Il passaggio arriva a Ntamack che vira tutto a sinistra, andando a cogliere gli All Blacks fuori posizione, poi serve Cabanne. John Kirwan dirà che in quell’azione sembrava di placcare delle ombre, era impossibile star loro dietro. Cabanne inventa un incrocio stratosferico, Deylaud cambia angolo e punta ancora all’esterno, siamo nei 22 neozelandesi. A ricevere il suo passaggio c’è Accoceberry, mediano di mischia di sangue basco. Ha debuttato una settimana prima, ma dei suoi eventuali timori reverenziali, francamente, non se n’è accorto nessuno. Il numero 9, con due avversari alle calcagna, fa l’unica cosa sensata al mondo, cioè punta la bandierina e corre di traverso. Ce la farebbe pure, ma serve all’esterno Sadourny, l’estremo, quando è praticamente dentro l’area di meta.
Ecco, gli All Blacks avevano fatto tutto giusto: tenere a poca distanza, preferibilmente sotto, i francesi, andarli a prendere a casa loro, regalando tutta la pressione del mondo. Tatticamente la partita era risolta. Il problema è che gli All Blacks avevano fatto i conti con l’ultima arma nella faretra francese. La chiamano tutti the French Flair, forse per denominazione di origine controllata. Forse perché solo loro sanno, in certi momenti, danzare, lanciarsi, trovare buchi a ritmi vertiginosi. Sono la sparata di Saronni a Goodwood, l’ultimo giro di Cova ad Helsinki, Allen Iverson sul parquet. È il ciclone di Pieraccioni, quando arriva non è che ti avverte, passa piglia e ti porta via.
No, non vengono fuori metafore ovali, non c’è niente di paragonabile nel panorama sportivo.
Eden Park non può venir giù, i francesi sugli spalti sono troppo pochi. Ma applaude, applaude di gusto una delle giocate più belle che si siano mai viste a quelle latitudini.
Eh, fosse solo a quelle latitudini, mai vista una cosa del genere al mondo.
Ma forse hanno ragione loro, quel che è ovale loro lo vedono sempre in anteprima.
Pierre Berbizier scende a bordo campo, sa che la partita è quasi finita e che gli All Blacks sono sempre gli All Blacks. Se li ricorda bene, sia il campo che gli avversari. Ha perso una finale dei Mondiali, tra quei pali e quel rettangolo verde. Sa che i suoi hanno bisogno di sostegno e di carica contro quelle quindici belve ferite. Ma sa anche che la sua squadra, oltre ad una verve fenomenale, ha il cuore forte. I padroni di casa attaccano alla disperata, ma non hanno più le forze per controbattere, poi l’arbitro fischia la fine.
È la prima volta che gli All Blacks perdono una serie con una nazionale europea.
Ed è l’ultima volta che perdono una partita ad Auckland.
Niente può essere come l’Eden Park di Auckland. D’altronde, se quella volta hanno deciso di chiamarlo come il biblico playground personale di Dio, un motivo in fondo ci sarà. Certo, ce ne sono di più grandi, ci saranno stadi più attraenti, ma giocare là dentro non è come giocare altrove.
Ad Auckland bisogna avere qualcosa in più.
Forse essere qualcosa in più.
O inventarsi qualcosa che sugli spartiti ovali di solito non c’è.
Casomai si vince un biglietto per il Paradiso, casomai ti ricorderanno per un po’. Perché lì, certe volte, il rugby è questione di altre dimensioni, non necessariamente accomunabili alla nostra. E le mete, neanche a dirlo, sono la fine del mondo.