Nome per nome, ruolo per ruolo. Statistica per statistica, pallone perso per pallone perso. Scartabella qualsiasi cosa. Poi sentenzia. Severo, ma quando c’è abbondanza bisogna saper fare la faccia brutta, seppur a malincuore. “Questo non corre abbastanza per il tipo di rugby che voglio io, next. Quello lì, per essere un’apertura, ha percentuali ridicole (per “ridicolo”, in certi frangenti con la felce argentata sul petto, si intende sotto l’ottanta per cento e sotto le 5 testimonianze di miracoli avvenuti), next. Quello non è cattivo come vorrei, next.
“Alt. Questo lo voglio. Guarda che stagione sta facendo”
“Ehm, coach, lui no.”
“Come no? Guarda che roba!”
“Eh ma ci sarebbero quei due minuti, coach, proprio non si può”
“Ah. Vero. Peccato. Next.”
Segno rosso, escluso.
Coach Graham Henry forse non ha detto questo, o forse non l’ha detto con queste parole. Di sicuro ha scartabellato, di sicuro ha sentenziato con la faccia brutta. Ma quel next che tante volte gli è venuto naturale al momento di escludere qualche giocatore dalla rosa stavolta gli resta un po’ in gola.
Ma, per una volta, miracoli non può farne.
Anno Ovale 2005, Henry e il suo staff stanno organizzando la rosa per il tour autunnale in Europa. Non è un tour qualsiasi, è il tour che verrà ricordato per il Grande Slam: 4 vittorie contro le quattro Home Unions, 41 punti al Galles fresco di 6 Nazioni, 45 all’Irlanda. Soffrono solo contro l’Inghilterra a Twickenham, ma nel loro vagabondaggio ovale, in tutto il vagabondaggio ovale, subiranno 3 mete. È uno squadrone, forse uno dei più forti mai arrivati in Europa. Ci sono i due Fenomeni con la F maiuscola, Dan Carter e Richie McCaw, capitan Tana Umaga, Rokocoko, Rico Gear, Howlett e Sivivatu a turno alle ali, Ali Williams, Chris Masoe. Tanti sono quelli lasciati a casa, alcuni di quelli rimasti in Nuova Zelanda avrebbero tranquillamente trovato posto in qualsiasi altra Nazionale. Ma Henry vuole stupire il mondo e non fa sconti.
Solo che..
Solo che quel ragazzino di 23 anni, quello che gli ha quasi fatto venire il magone, se lo sarebbe portato in spalla, se solo avesse potuto. Con Auckland ha appena vinto l’ultima edizione della NPC facendosi notare in una squadra che aveva più di qualche punta di livello, da Doug Howlett a Keven Mealamu, passando per John Afoa. E appena è stato chiamato in causa nel Super 12 ha preso e si è mangiato il campo. Si chiama Isikeli Kurimavua Nacewa, ma tutti per comodità lo chiamano Isa. È nato e cresciuto a Auckland, ha fatto tutta la trafila delle scuole e nel 2003 è approdato nella squadra “di casa”, quella militante nella serie più forte della NPC. Per le statistiche è un utility back, ma l’espressione è riduttiva: non è questione di essere forte in tutti i ruoli dei trequarti, è questione di essere fortissimo in tutti i ruoli dei trequarti. Dove lo metti fa la differenza. Ha già preso parte ad una Coppa del Mondo, nel 2003, ora sembra ancora più maturo e consapevole delle responsabilità da prendersi in campo.
E allora sorge spontanea la domanda: perché uno così, uno già passato per la Nazionale, non può essere ancora uno degli All Blacks?
Perché anche Graham Henry si deve arrendere, nonostante il groppo in gola e i rimpianti?
Semplice: perché Isa Nacewa ha sì già giocato in Nazionale, ma era quella di Fiji, quella dei colori del padre.
Due minuti.
Due minuti di troppo, secondo le regole del Board, che non vuole più cambi di nazionalità “facili” come quelli degli anni ’90. Non vuole più vedere un Matt Pini giocare il Mondiale del 1995 con l’Australia e che debutta da vincitore al 6 Nazioni 2000 con la maglia azzurra. Non vuole più vedere quel Frano Botica già campione del Mondo nel 1987 (senza giocare un minuto) giocarsi le qualificazioni per il Mondiale 1999, a fine carriera, con la Croazia, insieme a tutta una congrega di neozelandesi che hanno risposto alla chiamata di coach Sumich. E allora impone che qualsiasi cap con una Nazionale Maggiore escluda qualsiasi altra partecipazione con altre maglie. E allora impone che Nacewa, da quell’entrata in campo al posto di Seru Rabeni, possa vestire solamente la maglia bianca e il pantaloncino nero e possa mettere in scena solamente la Cibi, la danza di guerra figiana.
Se lo vorrà.
Perché non vuole.
Non lo farà più, anzi, proverà a più riprese a farsi annullare il cap dalla Federazione Internazionale, ma niente da fare, non si fanno sconti a nessuno. E allora da qui in avanti è solo un tuffo nel blu, il colore dei suoi Auckland Blues, inizialmente da centro ed estremo. Poi un giorno si fa male Luke McAllister, e allora serve un’apertura di livello. Coach David Nucifora avrebbe a disposizione Tasesa Lavea, samoano già stella anche del rugby a 13, ma alla fine opta per Isa. Quando McAllister tornerà giocherà centro, pure estremo in certi frangenti, ma nella stanza dei bottoni per lui non ci sarà più spazio. Oh, quel ricciolino è forte anche lì. Gioca quello che ha davanti, ha un’intelligenza rugbistica che non sempre si è vista in giro, se serve calcia bene anche dalla piazzola. A tutto questo aggiunge movenze e garretti isolani, garanzia di imprevedibilità e di benzina buona. Dove lo trovi un altro così, in giro?
Nel 2008 cambia emisfero, ma non colore di maglia: passa al Leinster di capitan Brian O’Driscoll, una delle squadre più forti d’Europa. Anzi, meglio: una delle squadre storicamente più complete e organizzate tra i trequarti, se è valido l’algoritmo (dieci anni fa ancora molto attendibile, ora meno) secondo il quale pressoché tutti i cavalleggeri della nazionale irlandese venivano da Dublino e pressoché tutti gli avanti venissero da Limerick, sponda Munster. Non è che si scappi molto da tutto questo, se è vero che in blu ci sono Sexton in mediana, O’Driscoll e D’Arcy ai centri, Shane Horgan all’ala, un giovanissimo Rob Kearney estremo. In molti si chiedono cosa possa fare un neozelandese lì. Sì, certo, alza l’asticella, ma in tanti si chiedono se quel Nacewa troverà mai lo spazio per farsi vedere in mezzo a tutto quel verde d’Irlanda. Oh, si sta parlando del Leinster, ricordiamocelo.
Certo che lo trova. Lo mettono ala o estremo, con Kearney che tante volte prende e si siede in panchina. Rob Kearney è uno degli eroi del Grande Slam irlandese del 2009, uno che nel secondo test con la maglia dei Lions in Sudafrica ha preso palle alte, placcaggi bassi e pure, forse, qualche numero di qualche avvenente ragazzina sudafricana, non crediamo per farsi spiegare tutto quello che sa sui calci di liberazione. Tutto, ma proprio tutto. È praticamente Peter Parker in calzamaglia sulle palle alte e placca come pochi altri estremi.
A Dublino uno così ricomincia a scaldare la panchina. Per dire, eh.
D’Arcy, che da quelle parti non è propriamente il meno ascoltato del gruppo, dirà di lui che è talmente bravo e costante da essere quasi noioso citarlo tra i migliori a fine partita. Nacewa dietro diventa praticamente un secondo regista e dà una grossa mano a vincere le Heineken Cup del 2009, del 2011, quella vinta in rimonta contro Northampton, e quella del 2012. Diverso il discorso in Pro12, dove Dublino a maggio sembra avvolta dalla nuvoletta da ragioniere di Fantozzi: nel 2010, 2011 e 2012 Nacewa e compagni perdono in finale, due volte dagli Ospreys e una da Munster. Riescono a portare a casa il trofeo nel 2013, l’ultimo anno di Isa, che sta già pensando al ritiro definitivo. Gli irlandesi lo premiano come miglior giocatore dell’anno, è la prima volta per un giocatore dell’emisfero sud. Torna in Nuova Zelanda, commenta le partite per la tv, ma poi sente la mancanza e torna sui suoi passi. Nel 2015 firma ancora per Leinster.
Lo fanno subito capitano, perché uno così, senza O’Driscoll, lo devi fare capitano. E sperare che insegni il più possibile ai giovani.
A calciare, passare e attaccare la linea.
A placcare ed evadere da ergastolani dello stesso identico umore, ma dalla divisa di un altro colore.
A vincere, perché Nacewa a quel Leinster in cui sembrava poter essere poco più che un buon cambio darà una grossa mano a sollevare trofei.
A saper aspettare le pulsioni dei 20 anni, quelle che non ti fanno aspettare, quelle che pensi siano ultime spiagge, ma che poi non lo sono quasi mai.
Ad aspettare due minuti, che non sono poi molti, ma che nella loro fugacità ti possono togliere di dosso la maglia più pesante ed importante del rugby. Piccoli, infinitesimi in una così lunga carriera, ma dannatamente decisivi.
Pure per Graham Henry, che quel giorno lo depennò a malincuore dalla lista dei convocati.
Di lì in poi, in quel tour, ad estremo utilizzerà principalmente Leon McDonald e Mils Muliaina. non che gli sia andata poi così male. Forse avrebbe potuto andargli meglio.
Isa Nacewa si è ritirato per la seconda e ultima volta. E mai come oggi vorremmo sentire ancora quel “next”. Perché, forse, vorrebbe dire che nel mondo ovale c’è come minimo un altro giocatore del genere.
Ma, forse, per un fenomeno del genere dovremo aspettare un po’ più di due minuti.