Le stazioni ferroviarie sono incroci, grovigli di storie. Gente che va, gente che viene, addii lunghi un bacio o un abbraccio, corse e bagagli ovunque.
Gente che viene, gente che va. Gente che resta.
Chi a dormire, che un posto fisso dove riposare le membra non ce l’ha, chi a lavorare, che altrimenti la baracca non regge. Il lavoro non manca mai in stazione, dal barista al bigliettaio a quelli che scaricano i treni carichi di merce.
Sono in tanti, quest’ultimi, tutti lì dalle 5 del mattino, prima e dopo l’orario di apertura.
Sono grovigli di storie che si attorcigliano.
Edgar Lee Masters, l’autore di una delle più belle opere sull’umanità e sui suoi rimpianti che siano mai state scritte (l’Antologia di Spoon River), davanti a tutto questo scriverebbe un altro capolavoro. C’è chi fa questo lavoro da venti e passa anni e si ricorda di quando le stazioni erano più sicure, chi è convinto di essere lì solo di passaggio, chi ha la schiena spaccata e deve stare attento a come si muove, chi ha figli e deve dar loro da mangiare. C’è chi arriva da lontano, chi in un’altra vita faceva qualcos’altro, chi è in perenne fuga e due soldi li deve comunque mettere in tasca.
Vecchi, giovani, di tutto.
El Coco arriva alle 5 e mezza e comincia, ogni mattina, a scaricare i sacchi di caffè. Vent’anni, due spalle così, un vitino da vespa o quasi. Argentino di Rosario, abita per il momento dalla sorella e dal cognato. È uno dei tanti che in Europa ci vuole provare, uno di quelli che vuole misurarsi fuori perché a casa non ne può più. El Coco lavora sodo, poi la sera torna a casa, prende il borsone e va ad allenarsi col cognato.
Rugby. Che a Padova non è proprio l’ultimo degli sport.
Bel giocatore, tra l’altro, il cognato.
È uno dei leader del Petrarca, uno di quelli che in campo parla e si fa sentire, anche con i muscoli. Anche lui di Rosario, proviene dal Duendes, squadra in cui anche El Coco ha giocato nelle giovanili. Nessuna convocazione nelle Nazionali giovanili, un padre che se vuoi giocare a rugby a livelli accettabili è un po’ ingombrante e tanta voglia di sbattere in faccia al destino due o tre botte sui denti di troppo. Il cognato, che di nome fa Nicolas Martín Galatro e che tornerà in Argentina dopo lo scudetto del 2011, gli propone di raggiungerlo e di provarci.
Proposta accettata. Il Petrarca è un’ottima squadra, sempre in lotta per i playoff negli ultimi anni. Ci sono giocatori di altissimo livello: Ludovic Mercier, Nicky Little, ci sono Galatro e Michele Rizzo. C’è passato anche David Campese, qualche anno fa. Solo che con Benetton e Calvisano in giro lo scudetto non è cosa.
Almeno non nella stagione 2008/2009.
El Coco si mette in mostra e, alla prova dei fatti, si dimostra un’ala coi fiocchi: veloce, curve da duecentista, placca anche discretamente. E poi non resta al largo: viene a prendersi il lavoro in mezzo al campo. È il primo uomo in piedi nei raggruppamenti. I compagni lo vedono giocare e capiscono subito che quello lì farà strada: ci mette una voglia e una garra viste troppo poco spesso dalle loro parti. Si ha la sensazione che, prima o poi, il ragazzo esploderà e riuscirà a dire qualcosa che il mondo ovale deve ancora sentire.
L’allenatore del Petrarca impazzisce per El Coco. D’altronde, a uno che giocava pilone anche in Nazionale, non può non piacere un trequarti ribaldo e che non ha paura di inzaccherarsi la maglia nei raggruppamenti. Pasquale Presutti da Trasacco ci mette una buona parola con la società, sa benissimo che uno così può fare molto comodo.
La società però nicchia, troppo secco per questi livelli. Niente contratto, viene parcheggiato nelle vicinanze, squadre minori.
Troppo magro. Stop.
Che è quello che gli dicevano al Duendes, solo che nella lingua che i nipoti di Cervantes hanno imposto da quelle parti suona come “flaco”.
Due su due, non è male come bastonata.
Deluso, molla i sacchi di caffè in stazione e abbandona quel groviglio di storie.
Torna indietro, forse per vedere cosa non è andato con la sua.
Non è stato un viaggio senza senso, però.
Qualcosa assorbe, che il segreto di ogni buon viaggio fatto è il portarsi dentro qualcosa. Si porta dentro un mister che credeva in lui, un cognato sempre in sostegno, una sorella amorevole e sempre al suo fianco. E riparte da Rosario, terra di rugby e del suo giudice più severo, il padre. Che prima di partire gli aveva detto senza mezzi termini il perché delle sue mancate convocazioni coi Pumitas: “No estás, porque sos un choto. Y los chotos no representan al país.”.
Choto, se cercate nel primo dizionario di spagnolo che avete a disposizione, online o cartaceo, significa “capretto”. Solo che alle latitudini di Rosario è meglio riservare questa parola solo a chi vi dà un po’ di confidenza. Il significato, qui edulcorato, è abbastanza vicino al nostro “mezza sega”.
Detto da un padre fa male.
Detto da un padre che in Nazionale ci è arrivato, sia da giocatore che da allenatore, è una discreta coltellata.
Detto da un padre che si chiama José Luís Imhoff, colonna del rugby a Rosario e dintorni e papà che non vuole strade facili per i figli, uccide.
El Coco, all’anagrafe Juan José Imhoff, torna ad allenarsi al Duendes con un piglio che mai gli era appartenuto. L’Europa l’ha assaggiata, gli è piaciuta e vuole riprendersela. È una scalata senza sosta: Rosario, Pampas, Jaguares. Debutta nella Nazionale Seven, poi nella maggiore contro il Cile.
Primo incontro e quattro mete.
I cileni non saranno dei fenomeni, ma se vi capita di guardare la partita da qualche parte El Coco vi sembrerà un Usain Bolt dei vecchi tempi, quello degli anni in cui i record mondiali tremavano al suo passaggio, che passeggia nelle batterie dei 100 metri.
Quasi in surplace.
Una surplace da dieci netti a botta.
Il suo momento arriva alla Coppa del Mondo 2011: a 23 anni è uno dei Pumas più giovani, ma segna due mete contro Georgia e Romania. I Pumas escono ai quarti contro gli All Blacks, ma El Coco comincia a ricevere le sue brave chiamate dall’Europa: Francia, Inghilterra, Irlanda. Alla fine cede alla corte del Racing Métro. Lo trovate ancora lì, se avete bisogno di qualche lezione di cadrage e di killer instinct, se mai quest’ultimo si possa insegnare.
El Coco si è districato nel suo groviglio di vite come ogni buona ala che si rispetti ed è andato a prendersi la sua area di meta. Faticando come un dannato, girovagando tra dirigenze miopi e campi sterrati di periferia. Curvando, debordando, andando a prendersi il lavoro in mezzo al campo come prendeva quei sacchi di caffè alla stazione.
Evitando anche il placcaggio più umiliante, quello delle accuse di doping, da cui è stato assolto alla grande.
Per l’Italia c’è passato un paio di volte per i test-match autunnali, nel 2013 l’ha risolto lui, prendendo per mano i Pumas più interlocutori degli ultimi anni.
Non è dato sapere se sia passato ancora per Padova.
All’ombra del Santo pare cerchino invece un discendente di Edgar Lee Masters, ci sono un po’ di epitaffi da riempire e da mettere lì, a futura memoria. Sembra che qualcuno abbia un rimpianto da raccontare e da tramandare, così, tanto per inciamparci su in futuro. In stazione, forse, qualcuno dei vecchi racconterà ancora a lungo del Coco, del ragazzino col vitino da vespa e le spalle larghe così che a fine giornata si scrollava di dosso la polvere nera dei chicchi rotti e il sudiciume dei sacchi come fossero due avversari qualsiasi. Qualcuno ascolterà, qualcuno riderà dell’ennesimo matto in circolazione. Dell’ennesimo cantastorie di serie B. Qualcuno invece accenderà la TV e vedrà una storia da stazione diventata realtà.
Tra mischie, ruck e righe di gesso bianco, tra passaggi e fughe solitarie.
Tra gente che viene e gente che va, dove fermano i treni.
E dove ripartono. A volte più pesanti di responsabilità e di passeggeri, a volte più leggeri, più veloci, più liberi.
Sempre e comunque dritti alla meta.