Il 9 ottobre 1963 io c’ero, c’ero eccome. Per chi non lo sapesse, o per quelli che preferiscono minimizzare o ignorare i fatti, in quella data è avvenuto il disastro del Vajont. Come cos’è il Vajont? Ah già, in Italia si studiano i drammi “altrui”, ma non quelli avvenuti “in casa”. Prima di parlare del come ho vissuto quel dramma, e di come il mio rugby ne è stato una parte integrante, voglio fare un breve riassunto dei fatti; chiaramente questa è una mia visione delle cose, ma visto che l’ho vissuta in prima persona, io la voglio ricordare così.

 

Riporto di seguito i fatti e i dati che hanno caratterizzato questa tragedia tutta italiana;

 

Tutto nacque da una frana caduta dal versante settentrionale del monte Toc, situato sul confine tra le province di Belluno (Veneto) e Udine (all’epoca dei fatti, ora Pordenone, Friuli-Venezia Giulia), staccatasi a seguito dell’innalzamento delle acque del lago artificiale oltre quota 700 metri (slm) voluto dall’ente gestore per il collaudo dell’impianto, che combinato a una situazione di abbondanti e sfavorevoli condizioni meteo (forti precipitazioni), e sommato a forti negligenze nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico del versante del monte Toc, innescò il disastro.

Alle ore 22.39 di quel giorno, circa 270 milioni di m³ di roccia (un volume quasi triplo rispetto all’acqua contenuta nell’invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m³ d’acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena tricuspide che superò di 100 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte (circa 25-30 milioni di m³) scavalcò il manufatto (che rimase sostanzialmente intatto seppur privato della parte sommitale) riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi limitrofi.Vi furono 1917 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.

 

Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell’abitato di Erto. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta. Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave.

 

Il disastro del Vajont viene ricordato come un caso esemplare di “disastro evitabile” causato dalla scarsa comprensione delle scienze della terra e – nel caso specifico – dal «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare».

 

Ma torniamo a noi: quella mattina, come spesso capitava al tempo, stavo aspettando mio nonno per dargli una mano nei campi. Di solito lui, da buon friulano, iniziava a lavorare la terra in orari assolutamente indicibili per noi esseri umani, ma quella mattina lo aspettai per i cinque minuti canonici (visto la sua puntualità) e poi  iniziai a cercarlo (strano era il ritardo), quasi preoccupato. Prima nel frutteto, poi nel campo di grano, tra le mucche, nel pollaio e infine lo scorsi seduto a fianco alla radio nell’officina. Aveva la pipa in bocca e gli occhi lucidi. «Nono, ce ti colial?» (Nonno, che ti succede?). Silenzio. Allora mi avvicino alla radio e ascolto l’annuncio della tragedia del Vajont. Mio nonno mi batte sulla spalla, si alza, prende uno zaino, sale sulla lambretta, mi sorride e scompare. Lo rividi solo giorni dopo, lui, a modo suo, aveva deciso che avrebbe dato una mano ed era partito verso i luoghi del disastro. Dopo che il mio sguardo lo aveva accompagnato fino alla fine della strada, corsi dalla nonna, per avvertirla della repentina partenza. Come se niente fosse, anche lei visibilmente scossa, mi disse che se l’aspettava, in fondo il nonno era fatto così. Preso atto della cosa, decisi che forse anch’io, oramai adulto, avrei dovuto fare qualcosa. Per prima cosa corsi a sentire i pareri degli amici più stretti, tutti rugbisti chiaramente. Il primo fu Mario, il pilone, che già stava preparando lo zaino, consapevole che sarei corso da lui con l’idea di andare a dare una mano. Poi passammo da Antonio, l’apertura, anch’egli si dimostrò disponibilissimo a partire e così via tutti quanti. Eh si, la piccola squadra di amatori, (TUTTA), si mise in marcia verso il Vajont.. Nessuno di noi sapeva bene cosa avrebbe trovato, però tutti volevano aiutare, in qualsiasi modo. Una volta caricate le vespe, ci mettemmo in viaggio. Il percorso era deciso: tutte strade secondarie, diritti verso Montereale Valcellina e poi via per dietro; l’idea era arrivare al Vajont dal Friuli, attraverso strade impervie, per non incappare nella fiumana di persone che stava operando nella valle colpita dalla tragedia. La polizia ci fermò a Cimolais, imponendoci di tornare indietro, chiaramente il divieto ci “entrò da un orecchio e usci dall’altro”, sistemammo le vespe nel garage dello zio di Alfredo, l’ala, e continuammo a piedi. Sapevamo che la strada sarebbe stata lunga, ma a nessuno di noi erapassato per la testa di mollare. La nottata la ricordo molto umida, dormimmo accovacciati nei pressi di una piccola chiesetta, poco prima di arrivare all’ingresso della valle. Ricordo i lunghi silenzi, l’aria piena d’acqua, l’odore di montagna bagnata e la tristezza che ci circondava, man mano che ci avvicinavamo alla meta. Di buon’ora ci rimettemmo in marcia e arrivammo nella vallata della tragedia, dall’alto. Quello che ci si parò davanti era qualcosa di apocalittico, non tanto per ciò che vedemmo, quanto perché sapevamo cosa ci aspettava un po’ più giù. Dove c’era il lago ora c’era una montagna. Nessuno parlò. Si respirava un’aria ancora piena d’acqua e in lontananza si sentivano echeggiare i rumori degli elicotteri, dei camion dei militari. Non parlammo davvero, l’unica cosa che volevamo era fare. Nel nostro gruppetto eravamo in quindici, tutta la squadra di rugby del paese, che sempre in un insolito silenzio si riversò nella valle in cerca di persone da sostenere. Quello che vedemmo nei giorni successivi fu davvero incredibile, nel marasma generale ci perdemmo di vista, più o meno tutti, ma esattamente una settimana dopo, in dieci ci ritrovammo a fianco alla chiesetta dove avevamo “riposato” la prima notte. Avevamo dormito con i militari, in piccoli ripari, avevamo aiutato gli anziani, i bambini, i morti (quelli che il fango non aveva sommerso e l’acqua portato via per sempre), ci eravamo dati tanto da fare. Il ritrovo, non chiedetemi il perché, era stato assolutamente casuale. Nessuno voleva parlare, di quella settimana nessuno ne vuole parlare tutt’ora, ma quando sento gente dire che quella tragedia poteva essere evitata, mi chiedo davvero il perché, al tempo, nessuno abbia fatto davvero qualcosa per evitarla. Cosa centra questo con il rugby? Nulla, è solo un racconto di un vecchio che vuole condividere le sue esperienze ovali. E, a ragion veduta, posso ben dire che in quella vallata una squadra di rugby c’è stata, c’è stata eccome.