A 20 anni vivi di sogni e i sogni sono il tuo pane quotidiano. Io a quel tempo – e vi giuro che ne è passato davvero tanto – vivevo già da solo e, oltre allo studio e al lavoro, la mia unica passione era il rugby. Giocavo in una squadra sgangherata. Eravamo in 16. Ok, in 17 se contiamo Mariano, il figlio del custode che era un grandissimo appassionato ma di palla ovale ne capiva ben poco. “Pochi ma buoni, diciamo”, ci urlava sempre l’allenatore. Ed è vero eravamo davvero contati, ma la passione e la voglia di giocare che ci animava era una cosa che raramente nella mia carriera, poi, ho ritrovato. Amavamo quella piccola realtà ovale. La società comprendeva noi 17, l’allenatore, il custode, la Gigia (la cuoca), che ci lavava anche le magliette e 12 piccoli U9, al tempo le categorie erano dispari. Tutto ruotava attorno alla Club House e al terzo tempo. Il Club, se così vogliamo chiamarlo, era una casetta in legno che ospitava una cucina “professionale” – a detta della Gigia -, un bancone da bar, perfettamente allestito da Francesco il nostro mediano di mischia che nella vita reale faceva il falegname e una sala con gagliardetti, una televisione sgangherata, tanti tavolini da osteria, con tutte le sedie diverse le une dalle altre. Bene, quello era il nostro unico e grande sponsor. Tutti vivevamo quel punto di ritrovo come fosse il centro della nostra quotidianità e la Gigia era la migliore cuoca/banconiera del mondo. La mattina apriva alle 5. Tutti i lavoratori della squadra e non solo, prima di andare al lavoro passavano per un caffè e un cornetto (rigorosamente fatto in casa) oppure un pezzo di pane fresco con burro e marmellata. In paese si era sparsa la voce e in molti preferivano questo piccolo accogliente locale, ai soliti bar. Il pranzo era “light” a detta della cuoca: pasta, rigorosamente fatta in casa, con sughi di stagione, carne stufata con patate, insalata e pollo ai ferri. Queste le proposte. Ah, dolce della casa a seconda della fantasia di giornata della cuoca. L’aperitivo prevedeva birra, crostini con ogni prelibatezza e toast indimenticabili. La cena seguiva un rito fondamentale: prima dell’allenamento, con i giocatori più puntuali si decideva il menù serale e il capitano, precisissimo alle 19.05, lo consegnava alla Gigia che poi imbastiva il tutto. Bene, nell’anno in questione (non lo dico per non rattristarmi troppo), il campionato stava andando bene nonostante il numero non troppo ampio dei giocatori nella nostra rosa. Mancavano, tuttavia, soldi. Non per sfoggiare tutte e borse, ma per pagare l’essenziale: acqua calda ed elettricità. Così, per una volta, decidemmo di mettere da parte la Gigia – farla risposare, anche se poi lavorò tantissimo come sempre – e fare una cena di Natale aperta a tutto il paese dove, a cucinare, saremmo stati noi rugbisti. Ogni ruolo della squadra si sarebbe adoperato a fare il “suo piatto forte”. L’idea venne lanciata ad inizio dicembre ed esattamente cinque giorni dopo avevamo ben 156 persone che si erano prenotate. Tutte “forestiere”, nessuno ancora della squadre; quelli arrivavano sempre all’ultimo. Così da 5 al 10 dicembre i giocatori di ogni ruolo decisero i piatti da fare. Ecco il XV titolare:

– Piloni: parmigiana di melanzane;
– Tallonatori: salame e affettati vari (era un norcino);
– Seconde linee: pasta al forno con sugo di salsiccia;
– Terze linee: tiramisù;
– Mediano di mischia: birra artigianale per tutti;
– Mediano d’apertura: antipasti, sott’olio e verdure al forno per “sciacquare”;
– Trequarti centro: carne alla brace, di vaio tipo;
– Ali: stinchi e patate;
– Estremo: Crostate e dolci vari;
– Allenatore: vino e grappe (gestiva una piccola cantina).

Costo della cena: 15mila lire. Più offerta libera.

Bene, non sto qui a dirvi il ricavato. Ma in paese si parla ancora di quel 22 dicembre. Le griglie grigliarono e scaldarono per gran parte della serata/notte, il resto lo fece il vino. I forno allestiti per l’occasione (uno venne addirittura costruito fuori dalla Club House) buttarono fuori prelibatezze fino a notte inoltrata. La Gigia lavorò con ogni ruolo, chiaramente. Ricordo le risate, i sorrisi e, soprattutto, ricordo come imparammo a lavorare in gruppo e questo, inevitabilmente, si riflesse in maniera importante anche sul resto del campionato. Non vincemmo. Ma quei 17 sono ancora i miei migliori amici, anche se poi tutti abbiamo intrapreso strade diverse e ogni 22 dicembre ci si rincontra per gli auguri e per “tentare” di replicare quella storica festa Natalizia/Ovale.

Buone Feste a tutti voi.