Più passa il tempo e più sento che l’anno non è più scandito da eventi importanti, ma da feste che ricordano…così oggi siamo arrivati a quella del papà. Tanto importante, quanto vissuta in maniera quasi anonima e non ne capisco il motivo. Io il mio papà l’ho perso da tanto tempo, ma di lui non posso che avere dei bellissimi ricordi e voglio rubare un po’ di spazio e tempo, per chi vorrà leggere queste righe, per ricordarlo. Lui era un calciatore, rapito dal rugby. Ha amato tantissimo la palla rotonda, ma l’ha tradita per un amore intenso e appassionato con quella ovale; non rinnegandone, però, mai la bellezza. Diciamo che papà era come me, schivo, silenzioso, un orso buono, così lo definivano in città. Il classico omone, tutto capelli lunghi, barba incolta e fisico imponente che, a prima vista impauriva e metteva in soggezione, ma se lo osservavi bene era il classico uomo capace di perdersi guardando un paesaggio, oppure isolarsi per seguire il volo di una rondine. Un sognatore, insomma, rude sicuramente, ma pur sempre un sognatore. La prima volta che gli ho presentato il rugby mi ha detto: “e come fai a seguire quella palla così stramba. Come cambiano i tempi. In ogni caso se ti piace giocaci, ma attento…pretendo serietà”. Così da quel pomeriggio di settembre lui non si è perso un allenamento, per capire il gioco (a lui completamente sconosciuto), prima e poi tutte le partite (per affinarne la conoscenza). Se ne stava in silenzio, sul lato sinistro (dando le spalle al campo) delle nostre sgangherate tribune; guardava tutta la partita e, che si vincesse o si perdesse, mi aspettava fuori dagli spogliatoi per darmi il suo punto di vista sull’incontro e su come avevo giocato. All’inizio non ci volevo credere nemmeno io, ma con il passare del tempo (nemmeno troppo) era arrivato ad essere davvero competente in materia ovale, tanto da passare molto tempo a chiacchierare con l’allenatore, il gestore del bar più centrale della città. Quando mi convocarono per la prima volta in nazionale giovanile, la lettera me la diede lui e, una volta condivisa la bella notizia, mi disse solo: “pretendo serietà”. Per lui, che io rappresentassi l’Italia o la squadra cittadina era la stessa cosa; diceva spesso che il rugby era importante a prescindere, ogni partita aveva una storia a sé e gli scrittori eravamo noi giocatori, che avevamo la fortuna di praticarlo.

Ha seguito tutte le mie partite e ogni volta mi ha detto la sua, che mi piacesse o meno. Mi ha accompagnato nelle trasferte più lontane e supportato nei momenti più bui e difficili, ovali e non. Quando mi sono rotto i crociati, ad esempio, ha semplicemente sentenziato: “da voi (non ha mai voluto far vedere di amare alla follia il rugby, da ex tifoso di calcio) non c’è la filosofia del rialzarsi sempre dopo ogni placcaggio, non far vedere mai di aver subito l’impatto con l’avversario? Bene, in questo caso sei stato placcato da un infortunio, è un avversario diverso, ma pur sempre un avversario. Per cui sai benissimo come devi reagire”. Lui era così schietto, fuori dagli schemi, ma anche di una dolcezza incredibile, tutta sua, ma ineguagliabile. Dopo una semifinale scudetto (giovanile) persa di un soffio, eravamo tutti distrutti, fermi in mezzo al campo a guardare gli altri festeggiare, i più in lacrime. Lui, entrò in campo e strinse la mano a tutti i membri della squadra, panchina compresa, poi si diresse verso di me, mi sorrise e mi fece una carezza. Lui era fatto così, tanto rude, quanto sensibile e attento ai sentimenti altrui.

Il giorno in cui papà “passò la palla” per un male incurabile, pensai solo a quello che diceva sempre: “i placcaggi non serve che li prendi tutti, hai gambe, evitali”. Sono anni che mi chiedo il perché non gli ho mai insegnato a giocare, forse in quel modo anche lui avrebbe potuto provare ad evitarlo quel placcaggio. Il tutto successe di mercoledì mattina, alle 8.05. Tutta la squadra nel giro di poche ore si fermò: studenti, panettieri, macellai, operai, insegnanti, baristi, muratori, tutti vennero a salutarlo per un’ultima volta; nessuna lacrima, tanta tristezza, ma nessuna lacrima. La sera, poi, tutti ad allenamento e il sabato alla partita del resto… “è tutta una questione di serietà e la pretendo”. Ciao papà.