Tra le tante cose che il rugby ti regala, una di quelle che ti rimangono dentro per sempre è sicuramente il clima che si vive all’interno dello spogliatoio. Eh si, perché se il campo decide le partite, lo spogliatoio le prepara. Mi spiego meglio: dalla serie C, a Twickenham, tutte le squadre che si rispettino vivono con trasporto e concentrazione, quel momento di preparazione pre – partita, all’interno di qulle quattro mura che, oltre a isolare, uniscono il gruppo, rendendo ancora più unico e vero lo spettacolo del rugby.  Ho specificato questo intervallo (serie C – Twickenham), per il semplice motivo che non c’è categoria che tenga in Ovalia, ogni partita (almeno per il mio vissuto) ha la sua importanza e, ogni rugbista che si rispetti, la vive con il trasporto di una finale di Coppa del Mondo. Nel primo derby di serie C a cui ho preso parte, ad esempio, ci ritrovammo più di due ore prima al campo; era un periodo in cui non si avevano divise, ma c’era comunque un sano e vivo attaccamento alla maglia. L’allenatore ci disse poche parole, poi ci lasciò da soli con il capitano che, una volta controllato il campo (mai capito l’utilità di questo gesto, visto che al tempo avevamo solo un paio di scarpe e i tacchetti erano sempre e solo in ferro), ci accompagnò nello spogliatoio. Al tempo avevo 17 anni ed era la mia prima stagione in prima squadra: quel luogo di preparazione, tutt’ora, me lo ricordo immenso, caldo e degno del mio massimo rispetto. Non c’erano posti assegnati, figuriamoci, ma ognuno dei 22 convocati sapeva dove andare a sedersi, perché era “da una vita” che si cambiava, sempre nello stesso luogo. Io, invece, intimorito e riservato, mi trovai in difficoltà e, dopo uno sguardo generale, scelsi l’unico spazio libero: quello vicino alle docce, scomodo perché “di passaggio” e facile allo schizzo d’acqua. Ricordo, come fosse ieri, che mi sedetti e rimasi colpito dalle scene che si stavano iniziando a verificare tutt’attorno a me, solo in seguito capii essere dei riti, delle consuetudini ovali. C’erano le seconde linee, alte e riflessive, che in rigoroso silenzio si fasciavano le cosce, come potevano (al tempo c’era solo gomma piuma e nastro da pacchi), i piloni che si ricoprivano la faccia di vaselina (completamente) e il naso di creme fatte in casa, atte a far respirare meglio questi omoni sornioni. Il numero otto, invece, assieme ai due flanker, rigorosamente tutti seduti in fila 6 – 7 – 8, parlava sottovoce delle salite difensive, e di come dovevano, tutti, stare attenti agli inserimenti del forte estremo avversario. Capitolo a parte per la mediana: il mediano di mischia, infatti, sorridente e rilassato come sempre era pronto in pochi attimi e  passava il resto del tempo a darsi  gli ultimi ritocchi, come se dovesse uscire per una sfilata e non per una partita di rugby;  l’apertura, invece,  un panettiere di 32 anni (al tempo), stella della squadra, abilissimo nei calci di spostamento e nei drop (questa caratteristica suscitava nei pochi, ma buoni tifosi, una venerazione incredibile nei suoi confronti), si preparava lentamente, curando ogni minimo particolare. Delle ali, invece, non ne parliamo: forti in campo, ma delle lagne nel pre  – partita, se ne stavano vicine al termosifone, lamentandosi del troppo freddo. Io quasi in catalessi, dopo più di mezz’ora in cui ero rimasto silenzioso osservatore di questi riti, venni ripreso dal mio compagno di ruolo, il secondo centro, un rude boscaiolo, che faceva 55 km ogni volta che c’era allenamento o una partita, pur di giocare. Mi preparai in poco tempo, mentre la macchina operativa dello spogliatoio continuava a muoversi tutt’attorno. Quelli pronti, ad esempio, si muovevano lentamente su e giù, spesso andando in bagno, bagnandosi le mani e la faccia, oppure fermandosi dei minuti interminabili nelle docce. Altri stavano seduti con la testa tra le mani a pensare, mentre i più anziani del gruppo tentavano di erudire i giovani, con aneddoti ovali, del tempo che fu. Più il tempo passava, però, più i silenzi aumentavano e ogni giocatore tentava il più possibile, di trovare la giusta concentrazione per affrontare la partita. Prima dell’entrata in campo, riscaldamento escluso, ci furono due momenti in cui, un po’ tutti parlarono: l’appello con l’arbitro, chiaramente, e l’attimo di concentrazione personale, momento in cui tutti bisbigliavano qualcosa per farsi forza e affrontare al meglio l’imminente “battaglia” (sportivamente parlando).

 

Perché questa analisi? Semplice, sono passati gli anni, il tempo è volato, ma certi riti sono rimasti gli stessi. Magari saranno cambiate certe cose, tipo la musica, lecuffie nelle orecchie e gli iPhone, ma il clima da spogliatoio è rimasto lo stesso; solo tra quelle quattro mura si può capire cosa significa essere una squadra, solo tra quelle quattro mura si può iniziare a conoscere e capire il proprio compagno di squadra, senza parlarsi, solo tra quelle quattro mura si può respirare e conoscere la vera essenza del rugby e del rugbista.