Il risveglio dopo la partita è qualcosa a parte. Non è un lunedì ma poco ci manca, anche se spesso coincide proprio con il primo giorno della settimana. Dura tirarsi su dal letto, se non sei già entrato nella routine ovale: gambe e braccia fanno male, le ossa in generale si fanno riconoscere, una per una, microfrattura postuma per microfrattura postuma. Se non si è professionisti, se la palla ovale non è il nostro lavoro, tante volte è necessario l’antidolorifico. Di solito è un lungo fotofinish tra paracetamolo e ibuprofene, effervescenti o meno. Alcune volte invece vince la coperta e la chiamata rapida in ufficio/fabbrica. Un giorno, due se il medico è compiacente o giocava pilone, e poi via come nuovi, sotto gli occhi di capi che, tra il rassegnato e l’adirato, ti dicono che è l’ultima volta.
Dan non sfugge a questa logica.
Le botte, date e prese, sono tante. Lividi quanti ne volete, calli e bozzi pure. Vivere nei raggruppamenti innalza la soglia del dolore che neanche lo Stelvio. L’ora del risveglio del rugbista il giorno dopo la partita e/o il giorno dopo l’allenamento, che tu sia un professionista o che tu sia un dilettante, sa fare malissimo. È democratico, il dolore, certi giorni. Ti prende qualche istante dopo che ti sei svegliato, giusto il tempo di aprire gli occhi e capire che quella volta forse era meglio dedicarsi al bridge.
Dura qualche secondo quella sensazione, poi sparisce, non preoccupatevi.
Dan si sveglia, apre gli occhi.
Vorrebbe tanto vivere quella sensazione di dolore. Ha pensato a lungo, durante la notte. Alle sveglie nel bel mezzo del Galles, Llandrindod Wells, nel suo letto, tra dolori e acciacchi. Alla fattoria divisa e condivisa con papà, mamma e fratelli. Ai trattori da muovere, agli animali a cui dar da mangiare. E al rugby. Cazzo sì, il rugby. Terza linea dura, aggressiva. Certo, mettesse su due o tre chili di muscoli in più non sarebbe male, ma chi gli si è parato davanti in partita difficilmente ha potuto superare le Colonne d’Ercole. Un placcaggio che è Cassazione, senza altre possibilità di replica. Una carriera nata bene, a Ebbw Vale, e proseguita con le Tre Piume sul petto. Nazionale Under 21, terza linea titolare sempre e comunque. Non è il miglior Galles di sempre, nonostante la presenza tra gli altri di Gareth Maule e di Bradley Davies, ma quella terza linea è veramente forte: Lewis Evans, Jamie Harris e con il numero 6 Dan. Dan Lydiate. No, non è un gran Galles, si perde anche in Italia contro una delle formazioni azzurre più forti di sempre (meta di Alberto de Marchi e piedone di Davide Duca), ma i ragazzi là dietro fanno tutti strada. Dan in estate viene preso dai Newport Gwent Dragons, il che significa giocare tra i professionisti. Pro12 e Heineken Cup, per l’esattezza.
In Coppa i Dragons finiscono in un girone altamente proibitivo, vista la presenza di Perpignan e London Irish. Il debutto è all’Aimé Giral, pieno Rossiglione Francese. I gallesi passano in vantaggio con Wyatt dopo 14 minuti, ma i padroni di casa rintuzzano subito con Guirado, 7 a 5. Sono più forti, la cilindrata è diversa, ma nessuno si tira indietro. Neppure Dan, che intorno al ventesimo vede un francese fare un break. Lo aspetta e lo porta giù con le meno buone.
Click.
Dan si risveglia in spogliatoio, steso su una barella.
Lo rassicurano, lo porteranno subito al più vicino ospedale.
Il placcaggio era stato ottimo, il giocatore di Perpignan aveva interrotto il suo volo, ma Lydiate aveva subito un colpo durissimo da dietro.
Fuoco amico, involontario, ma sempre durissimo.
Dan si sente bruciare braccia e collo, poi più nulla. La diagnosi è quanto di più duro si possa ascoltare: rottura di un disco vertebrale e di tutti i legamenti del collo. In ospedale gli fanno firmare una manleva, può essere che dopo l’operazione sia obbligato ad adagiarsi su una sedia a rotelle per il resto della sua vita.
Tutto dipende da come va l’operazione.
Dan si sveglia, apre gli occhi. L’ora del risveglio del rugbista il giorno dopo la partita e/o il giorno dopo l’allenamento, che tu sia un professionista o che tu sia un dilettante, sa fare malissimo. Ti fa pensare a quando avresti potuto diventare un campione di bridge, ma è solo un attimo, tempo che l’anestesia molli il colpo.
Dan sente dolore ovunque, poi prova a scrollare le dita dei piedi.
Le sente.
Lo hanno salvato dei gran muscoli del collo, più sviluppati del normale per via degli allenamenti.
Dei gran medici.
E pure una bella botta di culo. Q.b., come nelle ricette.
No, l’ospedale di Perpignan non può voler dire casa.
Non è il centro del Galles. Non lo sarà mai.
Ma se chiedete a Dan dove mai abbia capito quanto il rugby sia per lui un’oasi felice, beh, forse si dividerà tra quel ferroso letto di corsia, la sua cara Llandrindod Wells e una ruck.
Forse vi parlerà del Millennium Stadium pieno che aspetta il Grande Slam, quello del 2012, quando lascia le copertine al piede di Halfpenny e ai cavalli di North e Cuthbert, rivendicando però a sé il titolo di Man of the Match nel match decisivo contro la Francia.
Ma lo farà in un secondo momento.
Quelle dita dei piedi che a comando si flettono, si stropicciano e si fanno sentire vive e pronte verranno sempre prima.
Dan, quel mattino di ottobre del 2007, si è svegliato su uno scomodo letto d’ospedale.
Dolori e acciacchi quanti ne volete, calli e bozzi pure.
Ma non si è mai sentito così attaccato alla vita.
E non si è mai sentito così attaccato ad una palla ovale che chiede solo di essere cacciata.