Lo so, so già cosa mi direte.
Lo so da anni, da quando il mio ginocchio ha deciso che per lui era ora di riposare.
Così son buoni tutti, fossi nato con gli occhi a mandorla avrei avuto più chance, con Taipei segna anche mia nonna in ciabatte e calze contenitive.
Forse avete pure ragione.
Ma mica è colpa mia l’essere nato da questa parte del mondo. Mica l’ho scelto io di affrontare squadre di livello così rivedibile. E mica potevo fare a meno di segnare, ci mancherebbe altro.
No, non mi priverei di nessuna di quelle sessantanove mete segnate con la mia Nazionale.
Nemmeno se a chiedermelo fosse David Campese, fenomeno australiano a cui ho tolto il record di tutti i tempi. Nemmeno se a chiedermelo fosse la massima carica ovale mondiale. No, non sarebbe giusto.
Perché io, Daisuke Ohata, ho dato tutto per la mia Nazionale. E non ho guardato molto in faccia i miei avversari.
Dieci anni di carriera, per esempio. Due Coppe del Mondo e una, quella del 2007, sfumata sul più bello.
In Italia, a Treviso, ultimo test contro il Portogallo.
Ero appena rientrato dopo un lungo stop, era saltato il tendine d’Achille destro. Quel giorno saltò anche il sinistro. Addio, sogni di gloria. Da lì a qualche mese riuscimmo nell’impresa di portare a casa un pareggio storico contro il Canada, bissato quattro anni dopo.
Se solo avessi avuto qualche anno di meno. O un po’ di fortuna in più.
Se solo avessi potuto vivere il più grande momento rugbistico del Giappone, forse, nessuno contesterebbe l’esorbitante numero di mete segnato. Forse ne avrei segnata qualcuna in più a Fiji, Tonga, Samoa.
O forse no.
Se solo qualcuno ci avesse fatto capire prima che anche noi giapponesi avremmo potuto avere una mischia di alto livello. Ci è voluto Eddie Jones, con i suoi Borthwick e Ongaro a renderci competitivi lì davanti. Prima eravamo i Brave Blossoms, i boccioli coraggiosi, ottimo nome per una squadra valente, fiera, ma che non poteva nuocere. O, in alternativa, i Cherry Blossoms, i boccioli di ciliegio. Belli, ribaldi, spericolati, ma troppo spesso ancorati a degli avanti di cartapesta o quasi. Qualcuno ci paragonò a quei tipi di Takeshi’s Castle, quelli che correvano e correvano, ma poi si schiantavano sul muro. Eravamo quelli belli da vedere, belli da tifare, ma che alla fine prendevano dai trenta punti in su e tutti a farci coraggio.
Per dire, nel 2004 arrivò da noi l’Italia. Ci dissero che eravamo il Giappone più forte che si era mai visto. Non eravamo male per niente, è vero, e non eravamo nemmeno troppo distanti da quella Italia, bella ma sciupona. A scavare il solco ci pensò Martin Castrogiovanni, che segnò tre mete.
E chi l’aveva mai visto un Martin Castrogiovanni dalle nostre parti?
Col tempo ci siamo sistemati, siamo cresciuti. E siamo diventati una squadra temibile per tutti.
A Tokyo nel tempo hanno perso Galles e Italia.
Ai Mondiali abbiamo battuto il Sudafrica.
E, automaticamente, siamo diventati meno simpatici. Guarda te il caso.
Io, però, avevo già fatto il mio corso.
Sono arrivato ad un passo dalla Terra Promessa, ma non ci sono mai entrato.
Il percorso, però, l’ho arredato come volevo io, scattando e correndo ogni volta che potevo. Da ala, centro o estremo. Trovando tutti i buchi possibili. Inventandoli, a volte. Sorpresi tanti quando segnai al Galles in una partita della Coppa del Mondo del 1999, altri rimasero a bocca aperta quando bruciai francesi e statunitensi nel 2003.
La maggior parte delle mie mete però, e questo è il mio peccato originale, le segnai nel 5 Nazioni asiatico. Non era il massimo dei mondi possibili, me ne rendo conto, ma era il massimo del livello possibile a quel tempo. Sì, per carità, i test match estivi e autunnali, ma mica la nostra stagione poteva essere solo quello. Ho sempre cercato di dare tutto, chiunque fosse il mio avversario. Sono arrivate così le quattro mete in una partita contro la Corea e le otto, avete letto bene, contro Taipei.
Eh, dicevano, così son capaci tutti.
Così son buoni tutti, fossi nato in Asia avrei avuto più chance, con Taipei segna anche mia nonna in ciabatte e calze contenitive.
Queste frasi, però, hanno cominciato a dirmele nel 2006, quando con tre mete alla Georgia superai il record di Campese, fermo a 64 mete per i Wallabies. Prima ero, probabilmente, il solito giapponese arruffone e simpatico che giocava a rugby, ma che non poteva nuocere a nessuno.
Ma mica è colpa mia il fatto di essere nato da questa parte del mondo. Mica l’ho scelto io di affrontare squadre di livello così rivedibile. E mica potevo fare a meno di segnare, ci mancherebbe altro. No, non mi priverei di nessuna di quelle sessantanove mete segnate con la mia Nazionale.
Nemmeno se a chiedermelo fosse David Campese. Nemmeno se a chiedermelo fosse la massima carica ovale mondiale. No, non sarebbe giusto.
Forse, però, piacerebbe a me chiedere qualcosa. No, non al rugby, che mi ha dato tanto.
Al destino, forse. Mi sarebbe piaciuto vivere in un mondo diverso, in un’epoca diversa.
In un tempo, quello odierno, in cui tanti avversari arrivano qui in Giappone con il timore di perdere ben piantato in testa. In cui i Cherry Blossoms, o i Brave Blossoms, non sono più così teneri come il loro soprannome potrebbe portare a pensare. In un tempo in cui avere la possibilità di segnare mete ad avversari di spessore diverso porterebbe alla consacrazione di un talento, e non al dileggio dei nostri avversari. In un tempo in cui il mio Paese ospiterà una Coppa del Mondo in cui non dovrà essere per forza lo sparring partner degli avversari.
Ma in fondo non sarebbe giusto. In fondo è meglio che io, Daisuke Ohata, abbia fatto parte di un’altra generazione. Forse va bene così, forse era giusto che qualcuno preparasse la strada in attesa di un futuro luminoso in cui saremmo stati altro dall’essere solo simpatici.
E allora mi va bene così, mi sta bene aver perso tante partite.
E mi va pure bene che vi lamentiate delle mie sessantanove mete in cinquantotto incontri.
Perché presto, molto presto, il Giappone ovale sarà altro da me.
E quel giorno, forse, rimpiangerete i tempi in cui vi lamentavate di quel centro con gli occhi a mandorla che ha segnato otto mete a Taipei. Di quel Daisuke Ohata che ha smesso di essere un simpatico guascone il giorno in cui superò David Campese nelle classifiche mondiali. Quel giocatore fastidioso, difficile da prendere, ma che bastava limitare per indebolire tutta la squadra.
Forse, quel giorno, vi troverete di fronte una squadra dura, coriacea, clamorosamente forte.
E penserete ai bei tempi in cui segnavamo mete a Taipei e ci demolivate in mischia.
E a me, a quel Daisuke Ohata. Perché era forse meglio avere un solo avversario temibile, piuttosto che una trentina di scalmanati pronti a tutto pur di vincere.
E saranno solamente problemi vostri.