Ci sono giornate che non si dimenticano. Date che, ad ogni scorrere di calendario, fanno fare tuffi al cuore che manco Greg Louganis. La vedi, la ricordi quella data, e subito ti tornano in mente sensazioni troppe volte sgualcite o sopite dalle vicissitudini quotidiane, dalle pratiche sulla scrivania e da qualche litigata di troppo. Non spariscono, ma proprio mai. Soprattutto se fuori c’è il sole come quel sabato.
Roma a marzo sa essere meravigliosa. Luci e colori ti fanno capire che stare da questa parte del mondo, a volte, è una discreta botta di culo. La primavera batte i primi colpi, si fa largo a spallate delicate ma ferme. La mattina del sabato, a volte, ci sta che sia più dolce di altre: si ha voglia di dormire quell’ora in più, il tanto che basta per dribblare sonno o qualche gita fuoriporta all’Ikea. A fine marzo, però, può essere che la capitale sia più viva del solito. Soprattutto se a risvegliare le anime della città sono strumenti musicali non propriamente romani. Cornamuse, nella fattispecie. Dalle prime ore del mattino. Se non sei abituato a questo spettacolo, di scena in questo periodo di solito una volta ogni due anni, ci sta che ti incazzi e che tu voglia crepare il firmamento a bestemmie. Se invece tra le melodie non sempre intonate dei primi arrivati, incrinate di tanto in tanto dall’alcool, riesci a riconoscere “Flower of Scotland” forse hai già capito che tutto questo mica è necessariamente una punizione. Vai per le strade, occupa la metro che porta al Flaminio. Magari non chiedere se è vera la leggenda di ciò che sta sotto il kilt, se sei impressionabile.
E poi vai allo stadio, che quelli lì mica vanno in udienza dal Papa.
Non tutti, almeno.
Non ora, almeno.
No, prima c’è un sabato ovale da godere il più possibile, kilt o non kilt.
Religione o non religione, che c’è sempre qualcuno che prega sugli spalti.
C’è un Italia-Scozia che, nei primi anni del ventunesimo secolo, il più delle volte è coincisa con la lotta per non arrivare ultimi nel Sei Nazioni. Non nelle ultime due edizioni del torneo, con un calcio di Paterson nel 2006 e con le clamorose tre mete azzurre ad Edimburgo nel 2007 a sovvertire il fattore campo. E mica è solo questo. No, perché se stai respirando la primavera del 2008 vuol dire che giusto qualche mese prima Italia e Scozia si sono giocate un posto ai quarti di finale della Coppa del Mondo. Vittoria scozzese di misura, con due calci di Bortolussi che reclamano vendetta. Non sembra, ma il vento da noi è cambiato. Pierre Berbizier si è trasferito a Parigi, sponda Racing, in Italia è arrivato il sudafricano Nick Mallett. Per curriculum non abbiamo mai avuto un commissario tecnico così. Per tradizione (e pure per buonsenso, a volte) se il coach non ha avuto mai modo di provare la sua squadra prima del più importante evento ovale europeo dell’anno un po’ si fida del lavoro fatto in precedenza, riservandosi di inserire cambiamenti e cartelli da “lavori in corso” in momenti di maggior respiro. Il sudafricano, invece, alza la voce già dai primi allenamenti. Il capitano diventa Sergio Parisse, acquistano posizioni importanti in campo Leonardo Ghiraldini e Alessandro Zanni. E mette le mani pesantemente sul dente italiano che più duole, la mediana. Ritiratosi Troncon, Mallett giubila di fatto i tre mediani di apertura che avevano giocato di più con Berbizier: via quindi Ramiro Pez, il più creativo numero 10 nell’era post-Dominguez, Andrea Scanavacca e Roland de Marigny. Tutto farebbe pensare al battesimo da titolare per Andrea Marcato, che tra i convocati è l’unica apertura di ruolo. Andrea, che ha 25 anni e ha già debuttato con Berbizier, è uno dei giocatori più talentuosi mai creati dal movimento italiano negli ultimi anni. Ha mani di seta e piedi meravigliosi, dà delle coordinate ai trequarti che nessun altro numero 10 in Italia riesce a dare. Gioca poco a Treviso, è vero, ma si divide la cabina di regia con Marius Goosen, che a 33 anni è ancora in grado di fare la differenza.
Invece no.
Mallett mette Marcato in panca e sceglie in mediana Andrea Masi. Vuole una linea di trequarti avanzante, e per questo motivo il mediano di apertura, secondo la sua visione, deve essere in grado di attaccare la linea e creare avanzamento. Si ispira forse alla figura di Butch James, apertura-centro di 100 chili fresca di titolo di campione del mondo con gli Springboks. Certo, l’idea sulla carta non è malvagia, e Masi a livello giovanile in Abruzzo ha già giocato in mediana. Ma converrete che farlo a 27 anni su quei palcoscenici senza un allenamento specifico vero e proprio, beh, sia un rischio mica da ridere. Contro l’Irlanda Masi suona la carica, usa il piede molto di rado, ma in effetti dà l’avanzamento che Mallett voleva. Sì, ma quando è ora di cambiare lo spartito le cose cambiano: Andrea Masi è il centro italiano più forte dai tempi di Ivan Francescato, ma non è un’apertura. Lo vedi dal passaggio, mai veramente calibrato. Lo vedi dal gioco al piede, che è una teologia della liberazione e niente più. L’Italia di Mallett nei primi due incontri però non demerita: contro l’Irlanda paga una prima mezz’ora troppo timida, contro gli inglesi costa carissimo un intercetto di Bortolussi nel primo tempo. Abbiamo forse il pack più forte del torneo, con Lo Cicero, Castrogiovanni e uno tra Festuccia e Ghiraldini sugli scudi in prima linea e due seconde linee come Bortolami e Del Fava che allora non notavamo, ma che ora rimpiangiamo un bel po’. In terza Mauro Bergamasco e Parisse sono praticamente inamovibili, con Sole e Zanni a contendersi la maglia numero 6. In mediana con Masi si alternano Pietro Travagli e Simon Picone, ai centri Mirco Bergamasco e Gonzalo Canale sono inamovibili, così come David Bortolussi.
Almeno fino alla settimana di Cardiff. L’estremo azzurro sente un dolore lancinante alla spalla, è fuori. Tutto parrebbe portare allo slittamento di Masi ad estremo, con Marcato apertura titolare. No, Mallett non tocca la mediana, Andrea Marcato mette la maglia numero 15. I commenti non sono propriamente benevoli, il padovano secondo il popolo ovale italiano è fragile in difesa e troppo poco propositivo in attacco. Per favore, andatevi a vedere il primo tempo contro il Galles e poi ne riparliamo. Nella ripresa sbrachiamo al primo grosso errore e la partita di fatto non c’è più, contro la Francia reggiamo più di un’ora, ma poi dobbiamo alzare bandiera bianca. Resta la Scozia, al Flaminio, per togliere lo zero dalla classifica.
La squadra più abbordabile del torneo, dicono in tanti.
Si vince agevolmente, dice qualcuno in meno.
Qualcuno però decide di cambiare idea dopo aver visto cosa combinano gli scozzesi ai cugini inglesi. Vincono una Calcutta Cup senza dare mai l’idea di poter perdere la partita. Non segnano una meta e quasi mai ci vanno vicini, ma ogni infrazione inglese era pane per il più famigerato piazzatore scozzese del periodo, Chris Paterson. Fisicamente non un fenomeno, ma di una intelligenza e di un cinismo raramente visti su un campo da rugby. Contro di noi gioca ala, ma potrebbe giocare in qualsiasi ruolo dietro la mischia. A lui aggiungete una mischia non eccelsa ma combattiva, un flanker probabilmente ubiquo e dalla larvata capacità di lavorare sotto terra come Alasdair Strokosch e un mediano di mischia come Blair, che non sembra nemmeno un giocatore di rugby ma che quell’ovale lo conosce come pochi. La Scozia non è Calcutta Cup: loro al Millennium hanno tenuto in scacco il primo Galles di Warren Gatland finché Shane Williams e Stephen Jones non hanno deciso di alzare l’asticella.
Certo, è la squadra che più abbiamo messo in difficoltà nel torneo, ma mica ce la portiamo da casa. Partiamo forte, la nostra mischia li mette in difficoltà, ma il primo calcio di Marcato esce di un niente. Occupiamo il terreno, ma lì in mezzo troppo spesso c’è un tempo morto. Al primo passaggio piatto scozzese però Robertson annusa e prova il contrattacco, ma la difesa è schierata. La nostra ala però lascia partire un calcetto maligno dietro le spalle di Paterson, che si ritrova addosso pallone, tre azzurri e una mischia ai cinque. La nostra prima linea prende il sopravvento, Nigel Owens non può che dare la meta tecnica. Il Flaminio comincia a ballare come nei giorni belli, marzo gli dà colori e suoni da ultimo giorno di scuola. Dai che anche ‘sto giro la sfanghiamo, alla faccia dei debiti e di quella stronza della prof di latino. Solo che la Scozia non muore mai, non lo impariamo mai. Ci attaccano a tutto campo, noi perdiamo metri e non sappiamo perché, finché Strokosch non trova un buco e ci rintana nei 22. Si susseguono le fasi, ad un certo punto un pallone cade a terra, ma all’indietro. Lo raccoglie Hogg, è pareggio. Le cornamuse riprendono fiato, noi perdiamo la verve dei primi minuti. Gli scozzesi ci hanno disinnescato le maul, e pure le mischie chiuse non ci vedono più così in vantaggio. Loro però non sono gli All Blacks, e allora in qualche modo teniamo. Parks e Marcato si scambiano delicatezze dalle piazzole, poi allo scadere, Blair non trova nessuno davanti a sé e fugge in mezzo ai pali, 10 a 17. È potenzialmente il colpo partita, quello che ammazza una delle due squadre. Il Flaminio mette la sordina, si sentono tanti Flower of Scotland in sottofondo. Ne hanno ben donde, gli scozzesi sugli spalti, annusano la vittoria. La loro squadra non è che giochi meglio dei nostri ma il secolo e passa di storia sul passaporto regala dosi decisive di cinismo. Gli azzurri sono a terra, nella ripresa rischiano il tracollo più volte. Ci provano, ma ogni volta gli scozzesi ne vengono fuori bene. Masi non ne ha più, la lucidità di un regista non è cosa che si acquista da un giorno all’altro, né si può barattare con tutta la tenacia aquilana del mondo. Marcato avrebbe la chance di accorciare, ma il suo piazzato non ci arriva nemmeno vicino. Ma proprio quando sembra che tutto sia perduto Dan Parks compie la peggior valutazione della sua vita. Fa un passaggio ad orecchio, senza nemmeno provare la sensazione di un sostegno. Sulla linea di passaggio si avventa Parisse e fugge. Non può tenere quel passo per quasi 70 metri, lo sa. E allora fa un lungo passaggio al centro. Non ci sono scozzesi, c’è Gonzalo Canale.
Aperta parentesi.
Canale è un grande centro, ma in questo Sei Nazioni ha due mete sulla coscienza: contro il Galles, e sarebbe stata una delle mete più belle della nostra storia ovale, e contro la Francia, e andare in vantaggio a Parigi avrebbe avuto il suo perché. Probabilmente nella testa di Gonzalo di pensieri ne sono passati tanti, più forse dei rimbalzi di quel pallone. Lo prende e fugge, senza timore di perdita. Chiusa parentesi, riaperta la partita. Mallett dà il giro alla prima linea e fa uscire Masi, Marcato va in mediana. È un’altra Italia: vuoi perché la meta ci ha galvanizzati, vuoi perché cominciamo a guadagnare metri con giudizio, ma non siamo più quelli di prima. Il Flaminio capisce e ci sospinge come poche altre volte. Guadagniamo un altro piazzato, andiamo in vantaggio, poi pareggia Paterson. Sono minuti agonici, chi c’era ricorda tutti quegli ultimi minuti, tutti quegli ultimi sorsi di birra, tutti gli infarti mancati. Sarà anche la squadra più abbordabile, ma di perdere proprio non ne vogliono sapere. Parisse si diceva fosse acciaccato, nessuno ne ha mai avuto prova, né saprebbe dire in quale parte del corpo potesse esserci qualcosa che non andava. Altri stanno portando la croce e cantando a volte stonati, ma pur sempre a squarciagola. Strokosch viene nominato Man of the Match, ma non si capisce subito bene quale dei cinque apparsi in campo lo sia veramente. Nel frattempo recuperiamo un pallone pesantissimo a metà campo. Due passaggi, Marcato calcia nell’angolino. È un ovale, quello, che di solito rimbalza ed esce, ma in questo caso rimane in campo. Dondola beffardo tra linea di touche e linea di fondo, inguaiando Parks. L’apertura scozzese calcia con pressione, ma le sue ansie gli fanno guadagnare una ventina di metri e niente più. La touche la conquistiamo bene, Marcato attacca da primo uomo in piedi. Travagli si affida alle mini-unit, Nieto e Canale guadagnano metri preziosi, ci installiamo nei cinque metri. Caro Dante, se leggi queste righe fai un pensierino alla bolgia del Flaminio, per la prossima edizione. Mettici dentro tutti quelli che hanno dilapidato tesori e vantaggi, e pure quelli che a recuperare non ci credono. Cerchiamo il calcio di punizione, ma gli scozzesi difendono bene. Bortolami viene quasi girato, ripuliamo l’ovale e Travagli finta il cambio di senso, poi trova Marcato. Andrea non è a zero, non è perfettamente dietro al mediano di mischia, ma il drop lo prova. Due scozzesi si avventano su di lui, ma la gittata è partita. Sbilenca, non una delle sue migliori, ma dentro. Per lui, dopo un Sei Nazioni chiuso così, si faranno avanti Wasps e Perpignan. Lui rinvia i contatti, se possibile di un anno, non è ancora in scadenza. Farà tremare l’Australia a casa sua, poi però arriveranno invece l’ennesimo esperimento di Mallett (e conseguente trauma cranico a Twickenham) e un infortunio alla spalla nel momento peggiore, quello della vigilia dell’ingresso in Celtic League. Vincerà casomai, da allenatore più giovane di sempre in Italia, uno scudetto a casa sua traducendo in presente quel che tutti chiamavano futuro.
Nel frattempo è solo un lungo ballo di San Vito delle gradinate, con i secondi che scorrono e con Roma che, forse ve l’ho già detto, a marzo sa essere meravigliosa. È protettrice di giornate che non si dimenticano, di sensazioni troppe volte sgualcite o sopite dalle vicissitudini quotidiane, dalle pratiche sulla scrivania e da qualche litigata di troppo. Non le fa sparire, ma proprio mai. Le rende eterne, come lei. Soprattutto se, fuori e dentro di sé, sa far splendere il sole anche quando non te l’aspetti più.