Joe Carlisle, chi è costui? A Treviso lo ricordano molto bene, e non esattamente per essere stato il miglior acquisto della storia della Benetton. Correva l’anno 2014: la Treviso ovale non respirava una grandissima aria, nonostante poco meno di un anno prima si fosse concretizzata quella che fino ad allora era considerata la miglior stagione di sempre di una italiana in Europa. Una cavalcata che aveva portato ad un settimo posto nel Pro12, una buona figura in un girone di Heineken Cup impossibile (Tolosa, Leicester Tigers, Ospreys) e, grazie a gran parte di quel blocco biancoverde, al miglior Sei Nazioni della nostra storia ovale. Di lì a qualche mese, però, il giocattolo si inceppò, complice una licenza ballerina che non permise di capire quale sarebbe stato il futuro dei trevigiani. La prima conseguenza fu la diaspora dei migliori giocatori, che si accasarono altrove, tra cui molti azzurri (Ghiraldini, De Marchi, McLean, Barbieri), alcuni stranieri (La Grange, Loamanu, Berquist) e, primo tra tutti, Franco Smith, andatosene in autunno sbattendo la porta. La situazione non era bella. Alla fine la licenza arrivò, ma la squadra era tutta da rifare. Si attinse a piene mani dal campionato italiano, ingaggiando vari giovani di talento (Enrico Bacchin, Marco Barbini, Marco Lazzaroni, Simone Ragusi), altri tra i migliori giocatori del torneo (Lucchese, Romulo Acosta), altri dalle Zebre (Ruggero Trevisan, Nicola Cattina). A questo gruppo bisognava aggiungere per forza di cose qualche giocatore d’esperienza in grado di alzare il livello fin da subito, e allora si guardò all’estero. Che non è una cattiva soluzione, se lo si fa per tempo. Il tempo, però, è tiranno, bisogna fare presto. E quando si arriva tardi e si vuole far presto non è detto che tutto andrà per il meglio. Sta di fatto che, nell’estate del 2014, il mercato trevigiano permette a Umberto Casellato di avere a disposizione vari stranieri dal curriculum interessante, ma provenienti chiaramente da un mercato che definire “di riparazione” è operare di eufemismi. Ci sono giocatori con un discreto minutaggio in Europa (il neozelandese Auva’a, già visto a Leinster, l’argentino Vallejos, con un passato a Parma, l’ex Gloucester Rupert Harden) e nelle franchigie del Super Rugby (Jayden Hayward, Albert Anae, Sam Christie, Mat Luamanu, Salesi Manu). Dall’Inghilterra arriva invece uno dei nomi più conosciuti del gruppo. Si tratta di un mediano di apertura proveniente dai London Wasps, con più di 600 punti all’attivo in Premiership e una fama di buon organizzatore di gioco. Joe Carlisle, appunto. La stagione, però, non può essere da subito la migliore di sempre: il primo campanello d’allarme è una sconfitta in un test estivo contro Rovigo, ma il peggio deve ancora arrivare. Il torneo comincia malissimo, arrivano sconfitte in serie, alcune veramente disastrose. Ma non può andare diversamente: la mischia deve trovare una alchimia che non si può inventare in due secondi, le fasi statiche hanno bisogno di oliare i meccanismi, i reparti devono comunicare. Monigo non gradisce lo spettacolo a cui deve assistere. E, oltre a questo, alcuni dei nuovi acquisti non reggono il livello. Il primo ad andarsene è Auva’a dopo qualche mese. Ma gli spettatori sembrano particolarmente indisposti dalle prove di quel biondo numero 10 che tanto bene faceva in Inghilterra. Sarà il secondo ad andarsene, ad aprile firmerà per i London Welsh e lascerà l’Italia. No, Joe Carlisle non è mai entrato nel cuore dei tifosi trevigiani: troppo timido palla in mano, troppo svagato nei placcaggi, troppo compassato nel lanciare i trequarti. Il fatto è che, probabilmente, un Joe Carlisle non avrebbe mai dovuto essere un opzione per la Benetton Treviso. Perché il biondo di Swindon era (ed è) un signor giocatore, dotato di piede sopraffino e di una notevole visione di gioco, ma sicuramente uno dei meno adatti per il gioco prettamente garibaldino richiesto da Umberto Casellato. E uno dei primi a subire le fragilità di una mischia – e, più in generale, di un gruppo – che non avrebbe mai potuto essere compatto in così poco tempo. Non è un caso, infatti, che l’allenatore in cabina di regia gli preferisse il più delle volte Sam Christie, centro ex Western Force, così simile nel gioco a quel Matt Cornwell che fece le sue fortune a Mogliano. Christie attaccava di più la linea, era il primo a cercare il buco e a mettere in confusione la difesa avversaria, poi al resto ci pensava Hayward, uno dei pochissimi di categoria superiore. Di Carlisle rimangono alcune gemme solitarie, vedi la meta ai Cardiff Blues, e una lunga serie di fischi del pubblico, non sempre meritati.

Perché queste righe su uno degli acquisti meno fortunati della storia di Treviso? Perché su di lui sono ricadute quasi tutte le conseguenze di un’estate travagliata, sia dal punto di vista “politico”, sia dal punto di vista strutturale. E perché sta a ricordarci che le diverse qualità, le diverse caratteristiche dei giocatori creano squadre con sfumature sempre diverse. Perché un Joe Carlisle avrebbe avuto bisogno di una struttura di gioco diversa, e forse Treviso avrebbe avuto bisogno di un giocatore che non fosse semplicemente una buona apertura, ma che fosse l’apertura più adatta ad un tipo di gioco ben definito. Perché Dan Carter e Jonny Wilkinson sono stati due enormi numeri 10, ma in campo sono stati due giocatori che in comune avevano solamente il numero di maglia. Le vicende ovali di questi giorni rischiano di ripetere quella che fu una stonatura e che nessuno vorrebbe diventasse un ritornello. Certo, le voci di una vera e propria rivoluzione si accavallano con veemenza, ma le sfumature sembrano diverse (più tempo a disposizione per creare un gruppo coeso e consistente, uno zoccolo di partenza qualitativamente superiore a quello del 2014). Qualsiasi cosa accada, speriamo che il gruppo di partenza sia pronto e coeso.

E che nessun giocatore, di nessun ruolo, faccia la fine di Joe Carlisle.