The Bua Bullet, il proiettile di Bua.

Me lo meritavo, quel soprannome.

Andavo veloce, ero implacabile e implaccabile.

Mi fermavo solamente se mi si parava davanti qualche essere umano.

No, a dire la verità non capitava sempre.

Nei miei giorni migliori quasi mai.

Sforacchiavo difese, trapassavo qualsiasi cosa. Gli estremi avversari, di solito, li guardavo negli occhi. Loro si smarrivano, andavano in panico.

No, non era paura la loro.

Ma sapevano che ogni minimo errore lo avrebbero pagato a caro prezzo.

Quanto sono distanti quei giorni.

Sembrano passate ere geologiche da quando mi presero a Northland prima e ai Blues poi. Mi ricordo i viaggi per andare in Nuova Zelanda, che cominciavano sempre con 15 chilometri da fare rigorosamente a piedi. Partivo dal mio villaggio, dalla casa di mio padre e dei miei fratelli, per andare a guadagnare qualche soldo. Ho ancora davanti a me la faccia di mio padre e le sue lacrime quando gli feci vedere la casa che avevo costruito per lui con i primi guadagni da giocatore di rugby.

Mai visti tutti quei soldi tutti insieme. Non al villaggio, no. Da noi c’era ancora il baratto, se avevamo bisogno di qualcosa che non c’era a casa si chiedeva ai vicini.

Giravamo con due, massimo cinque dollari in tasca.

E a Northland prima e ad Auckland poi di soldi ne ho guadagnati tanti.

Anche perché segnavo tante mete, facendo vincere la mia squadra. Prendevo la palla e non mi fermava nessuno. Ero veloce e robusto, cose che su un campo da rugby ti aiutano parecchio. La natura, però, mi aveva dotato di un baricentro particolarmente basso, caratteristica che mi permetteva di resistere anche a placcaggi che avrebbero asfaltato molti altri miei colleghi. Io rimanevo in piedi, rimbalzavo e ripartivo senza perdere troppa velocità.

Nel 2003 i miei Blues vincono il Super Rugby e mi guadagno una convocazione per la Coppa del Mondo in Australia. Noi, i Flying Fijians, siamo una bella squadra: fisicamente siamo belli compatti, abbiamo una linea di trequarti veramente temibile. Certo, siamo indisciplinati e deboli in mischia, ma quando giochiamo noi nessuno resta indifferente. Né nessuno ci sottovaluta.

Vinciamo contro Stati Uniti e Giappone, poi segno tre mete in due partite a Francia e Scozia. Quelle due partite le perdiamo, però qualcuno si accorge di me e delle mie prestazioni.

Qualcuno si accorge di quel numero 11 con la maglia bianca e dal cognome che sembra uno scioglilingua. Caucaunibuca, Rupeni Caucaunibuca. Da quel momento divento per tutti Caucau, anche se i miei amici più stretti sanno che chiamarmi Rups è tutta un’altra cosa.

Mi contattano dall’estero, dicevo. Mi arriva infatti una proposta da Agen, squadra del Top14, il massimo campionato francese.

Mi offrivano tantissimi soldi, ancora più di quelli che mi mettevano in busta paga i Blues.

Ecco, forse è stato quello il problema.

Forse, per uno come me, per uno che veniva dal piccolo villaggio, vedere tutti quei soldi in un colpo solo ha fatto male. E chi se la poteva permettere, a casa mia, la birretta del terzo tempo?

La birretta, le birrette.

E tutto quel cibo.

E quel tipo di case.

E la nostalgia.

Già, la nostalgia.

Se nasci tra le capanne, se vivi a stretto contatto con i tuoi familiari e poi sei costretto a non vederli più per mesi, la nostalgia diventa una brutta bestia.

Sapete, è ironica la vita: in molti mi consideravano l’ala più decisiva e forte del primo decennio del ventunesimo secolo, uno dei giocatori potenzialmente più prolifici di sempre. Non mi fermavano giocatori con fior di muscoli, cattiveria e curricula, mi ha placcato uno stato d’animo.

E vi posso assicurare una cosa: potete avere tutte le gambe del mondo, tutto il baricentro basso che volete, ma da quel che vi rimbomba nella mente non ci scappate nemmeno se vi chiamate Usain Bolt.

Ho cominciato a saltare allenamenti e convocazioni della mia Nazionale, tanto da costringere la Federazione a non convocarmi più per più di un anno. Stavo male, ingrassavo, una volta sono finito all’ospedale per degli scompensi, pensavo di morire.

Nel 2010 anche l’Agen rescinde il mio contratto.

È difficile vivere così, minati nell’animo in un mondo nel quale avresti tutto il diritto per sentirti a tuo agio. Non capire quali siano le priorità, non riuscire a gestirsi a trent’anni. Non capire come facciano gli altri ad andare avanti senza sbandate e problemi. Ed è durissima sentire i pareri dei tuoi colleghi. Joe Rokocoko, per esempio. Ha detto ad un sito che se avessi avuto la testa di un Carter o di un McCaw, forse, avrei potuto essere colui che più si sarebbe potuto avvicinare a Jonah Lomu. Brian O’Driscoll, che mi ha messo al terzo posto nella sua personale classifica degli avversari più duri mai affrontati. O Sireli Bobo, mio connazionale, che ha detto che sono stato una disgrazia per tanti rugbisti. E chi lo può biasimare.

Per fortuna qualcuno sta ancora dalla mia parte. Non che me lo meriti particolarmente, ma Vilimoni Delasau fa il mio nome allo Stade Toulousain, che ha bisogno di un medical joker per sostituire Yann David, infortunatosi per tutta la stagione. Gioco tredici partite, segno cinque mete nonostante pesi quindici chili più del mio peso forma. Mi richiama Northland, dicono che se calassi qualche chilo potrei ancora tornare ai  miei livelli. Mi presento agli allenamenti con tutti i miei 107 chili, a Tolosa erano 120. Faccio una buona stagione, mi convocano i Classic All Blacks per una esibizione contro le mie Fiji, ma non attiro nessuna franchigia del Super Rugby.

E poi, nel 2014, mi trasferisco in Sri Lanka.

Cerco di giocarmi le mie ultime carte con il rugby a sette. Sarà sport olimpico nel 2016, forse riuscirò a recuperare un po’ di tempo perduto negli anni, ma forse per me è troppo tardi.

Mi chiamavano Bua Bullet, il proiettile di Bua.

Me lo meritavo, quel soprannome.

Andavo veloce, ero implacabile e implaccabile.

Mi fermavo solamente se mi si parava davanti qualche essere umano.

No, a dire la verità non capitava sempre.

Nei miei giorni migliori quasi mai.

Peccato che i miei giorni migliori non facciano più così tanto volume, se paragonati col resto delle ore passate a capire, o meglio, a non capire qual è il mio posto nel mondo.

A sperare che un giorno mio figlio, che dicono abbia le mie gambe e il mio baricentro basso, sappia essere migliore di me. Fuori e dentro un campo da rugby.

Davanti ad estremi che non sanno dove appendersi per fermarmi o davanti a vecchie sirene che vagano nella mente.

Anche davanti al ricordo quello che tutti chiamavano the Bua Bullet, ma che troppo, troppo spesso è stato solamente Rupeni Caucaunibuca.