Erano le prime giornate di settembre, per intenderci quelle che non riesci completamente a capire, quelle che portano ancora con sè il caldo d’agosto, ma verso sera tutto è più mite e piacevole. Quelle dei tramonti rossi e vivi. Bene, proprio in quelle giornate noi riprendevamo a correre e a preparare il campionato che, avendo noi uno sponsor, dovevamo proprio provare a vincere. Siete rimasti scioccati dalla parola sponsor? Anche noi! Ma il 12 agosto, ricordo ancora la data, Evaristo Meneghelli, arrivato da Milano per aprire un bar dalle nostre parti, entrò in Club House durante in “consiglio direttivo” (una cena tra 5 amici) e disse: “Mi sento in colpa! Con quello che la squadra ha speso in questa estate da me, in gelati, gassose, birre e aperitivi, devo fare qualcosa. Mi propongo come sponsor. Vi pago le mute nuove!”. Silenzio. Poi strette di mano, lacrime, risate e progetti.
Bene, da quella cena tutto andò come doveva andare e noi, al primo allenamento, avevamo distribuito una borsa ad ogni giocatore ed una polo. Più avevamo fatto vedere le maglie. A strisce. Con un logo con scritto “Bar Meneghelli” al centro.
Il problema della stagione, tuttavia, era che Andrea, il nostro mediano d’apertura, era stato assunto a tempo indeterminato in azienda e, essendo questa piuttosto lontana, si era trasferito e aveva cambiato squadra. Così noi, al momento ne eravamo sprovvisti e in grande crisi.
Ogni sera, dopo allenamento, i trequarti si fermavano e, a turno, provavano a giocare N°10. Ma nessuno era riuscito a convincere e convincersi di poter giocare in quel ruolo. Così dopo le varie prove si finiva a provare con i piazzati e anche in quel contesto non è che ci fossero grandi velleità in generale.
Una sera, in ogni caso, tra un piazzato e l’altro si palesò un ragazzo dall’età indefinita sotto i pali e si mise a guardare cosa stavamo facendo. Poi prese un pallone, e ci urlò con un italiano/inglese di un certo livello:
“Oh! Quindi questo è il rugby? Semplicie”. Ci si avvicina, sposta il calciatore, mette la palla sulla piazzola e la colpisce con un calcio preciso e fortissimo che centra i pali da posizione bella angolata. Poi ci guarda e quasi annoiato ci dice sghignazzando: “A domani. Per training!”.
Gelo. Stupore. Curiosità. Non sapevamo nemmeno il suo nome. Tutti andammo a casa, aspettando con ansia l’allenamento del giorno dopo.
Arrivai al campo con il solito anticipo. E lo straniero era in mezzo al campo a corricchiare con una palla, gentilmente offerta dal custode che pensava fosse uno della squadra. Allora faccio per andare a presentarmi, quando lui da una quarantina di metri mi lancia un passaggio forte e precisissimo. Io sorrido. Lui si mette in pantaloncini e viene a presentarsi.
“Buongiorno! Sono Tony Jameson, ma tutti mi chiamano Cucuzza. Mai giocato a rugby, ma in America giocavo a football”. Avete presente uno stecchino? Ecco lui aveva due gambe sottilissime, un fisico da pensionato e una capigliatura che tendeva al grigio.
Davanti alla squadra, poi, rincarò la dose: “Non amo giocare per divertirmi. Io volio vincere!”. Tutti risero. Ma quella sera nessuno riuscì a prenderlo, mai. Così come le ali finalmente iniziarono a correre perchè lui sapeva passare e pure bene. Tuttavia non placcava nemmeno sotto tortura.
In pochi mesi Tony era diventato la nostra apertura, era l’idolo dei terzi tempi, il primo ad arrivare la campo e l’ultimo ad andarsene. Un atleta d’altri tempi. La sua frase storica era la seguente:
“Mai conosciuto mio padre, mai! Tuttavia se mi chiamo Jameson ci sarà un motivo…!”. Di solito lo faceva guardando Amos, il pilone, che all’inizio della stagione per metterlo al suo posto l’aveva sfidato bere. Ed Amos beveva. Ma alla prima bottiglia di Jameson la situazione era: Amos svenuto a terra e Tony che rideva. Rispetto al suo soprannome “Cucuzza” nessuno ne ha mai capito l’origine.
Rugbisticamente parlando, invece, Tony ci trascino letteralmente. Giocava come fosse nato su un campo da rugby e poi piazzava in maniera esaltante. Centro i pali ad ogni calcio di quel torneo. Non fece un placcaggio, ma quante mete fece segnare ai trequarti. Era bello da veder giocare, figuriamoci stargli a fianco in campo.
A fine anno se ne andò come era arrivato. Ci salutò, pianse, bevve, si ubriacò e poi tornò in America. Scoprimmo da una sua lettera che suo padre (Tony nonostante il fisico aveva 25 anni) aveva deciso di dargli in mano l’azienda, una multinazionale che produceva, fatalità, whisky. Così aveva ripreso a calciare nel football, ma ci scrisse che conosciuto noi e il rugby nulla era più come prima. Nella foto allegata c’era Tony seduto dietro la sua grandissima scrivania e dietro di lui, sotto vetro, la maglia della squadra con in bella vista lo sponsor.
Almeno, così, oltre a sapere qualcosa in più su Tony, eravamo anche venuti a conoscenza di chi si era allegramente portato via la maglia numero 10 e, grazie alla foto, potevamo quindi smettere di accusare il povero Marchino, lo storico panchinaro della squadra.