No, non credo di essermi mai sentito più inutile di così. Stanco, sfatto, la camicia sporca, i pantaloni sdruciti e sangue che fa capolino da dove poi dovrò cucire una toppa. Deve essere stato Smith, lui e le sue dannatissime scarpe rinforzate. O forse il ruzzolone nel tentativo di prendere la palla, un paio di azioni fa. Non ci volevo giocare. Non volevo nemmeno venire qui oggi. Hanno insistito, “dai che stavolta vinciamo”, “dai che è la volta buona”. Il sangue irlandese ereditato da mio padre, intriso di orgoglio, ha fatto il resto. Forse lui ne sarebbe orgoglioso, di sicuro lo sarà, ovunque lui sia, da qualche parte lassù. Ma io odio il calcio. Oddio, odio. Non lo amo particolarmente. Preferisco il cricket, ma forse è solo perché lì sono più bravo. O forse perché, ogni tanto, riesco a battere quel maledetto Southgate. Non lo sopporto quando lo incrocio nei corridoi della scuola, né lui né la sua spocchia. E nemmeno i suoi amici, quelli che vogliono sempre giocare a calcio, quelli che ci sfidano sempre. Quelli che ci battono, quasi sempre. Anche oggi, 1 novembre 1823. Oh, non tocchiamo palla. E poi ve l’ho già detto, non sono capace. Non come loro, almeno.
Fanno un altro gol. Noi riusciamo solo a dispensare qualche generosa pedata. Palla o tibia, quel che viene. Ah, capiamoci: è permesso colpire l’avversario sotto il ginocchio. Nessuno si lamenta. È permesso afferrare e/o afferrare la palla con le mani. Ma si può avanzare solo calciando. Ne consegue una discreta serie di mischie furibonde nelle quali una buona metà dei giocatori non sa dove sia finito il pallone, ma nel dubbio calcia. Palla o tibia, quel che viene. Poi loro calciano la palla, avanzano e segnano. Facile. Per loro.
Io non ne posso più.
Non è il mio posto.
Questo campo non è casa mia. Mi sento in gabbia, ma non ho il libretto delle istruzioni per uscire.
Ho davanti Southgate, biondo e tozzo. Naso largo e risata singhiozzante lo fanno assomigliare incredibilmente ad un suino. Ma quanto è forte con la palla, ha già segnato due gol. Calcia la palla, è più veloce e vuole superarmi. Non so che fare. Vorrei tirarlo giù dalle spese, buttarlo giù a mangiare un po’ di fango e terra, ma sarebbe una dimostrazione di inferiorità. Fermo la palla con le mani, Southgate mi è addosso. Spinge, si può. Non riesco a calciare, non ho nessuno dei miei a fianco, né dietro.
Non voglio perdere.
Sento le gambe pulsare, mi dicono qualcosa. Scalpitano, le seguo, corro.
In avanti.
Al diavolo che non si può, mi sono stufato.
Southgate non capisce e si ferma. Si fermano tutti, anche i miei, anche Smith e le sue scarpe rinforzate. Quanto siamo di riflessi lenti, noi britannici. Ligi alle regole, quasi mai un guizzo che non sia ben dentro la legalità. Io continuo a correre, i pali si avvicinano sempre di più, poi appoggio la palla.
Mi guardano tutti strano, uno mi spinge.
“Che diavolo fai?”
“Non sono queste le regole”
“Sei pazzo?”.
Stop.
Quanto tempo è passato da quel pomeriggio.
Ero un povero pazzo, anche un po’ frustrato. O almeno, così mi avranno considerato gli altri attorno a me. Mai più giocato a calcio, finii gli studi e presi gli ordini. Fui cappellano e parroco, protestante. Poi terminai il viaggio terreno e arrivai qui. Ogni tanto passo e vengo a rivedere i miei anni giovanili, tutto registrato. Sono un po’ nostalgico, lo so. Poco tempo dopo di me è arrivato qui un antiquario, tale Bloxam. Lui si ricordava di me, ero quello che corse via con la palla in mano in un pomeriggio di novembre. Non credevo di essere così famoso. Sembra però che qualche anno dopo qualche altro ragazzo abbia cominciato a giocare portando avanti la palla con le mani, così come feci quel giorno. Sembra anche che però nessun altro, quel pomeriggio, mi abbia visto fuggire con la palla in mano. Non mi stupisco, nel 1823 in un college era doveroso seguire le regole, se non lo facevi eri un trasgressore, uno da dimenticatoio.
Ma la storia di Bloxam, la mia storia, sembra abbiano fatto breccia qualche tempo dopo.
Il mio college, il Rugby College, ha dato il nome ad uno sport in cui si corre con la palla in mano.
Il trofeo per la squadra più forte al mondo, da decidere una volta ogni quattro anni, reca il mio nome.
Eppure quel giorno ero stanco, volevo solo andare via.
Via da Southgate.
Via dal campo di calcio.
Via da tutto, anche senza libretto di istruzioni.
Mi chiamo William Webb Ellis, e quel giorno non credevo di inventare un nuovo sport.
Avevo solo tanta voglia di correre.