Di Matteo Mazzantini
Il 6 Nazioni è già arrivato alla seconda giornata di rugby giocato… e la nostra Nazionale, tutto sommato, si è comportata abbastanza bene. La cosa che però fa davvero notizia è che finalmente si sono viste delle facce nuove! Eh si, dopo tante stagioni di “i soliti nomi”, finalmente il lavoro svolto sui giovani sta realmente dando i suoi frutti: i vari Benvenuti, Venditti, Morisi, Esposito fanno ben sperare in ottica futura, portando di fatto aria nuova in una squadra che cominciava ad accusare l’età. Ma perché dopo tanti anni in cui lamentavamo l’immaturità dei nostri ragazzi a confronto dei coetanei di altre nazioni, adesso improvvisamente, abbiamo scoperto che anche in Italia crescono giovani promesse?
La federazione, da anni, sta puntando moltissimo sul settore giovanile ed è spesso criticata, a volte giustamente altre meno, ma lo spirito di base che spinge i “cervelloni” federali nel loro lavoro, è lo sviluppo di giocatori di livello internazionale. Solo quello…quasi.
L’Accademia federale Ivan Francescato era nata, copiando un progetto francese, proprio allo scopo di aiutare i ragazzi più meritevoli a sviluppare il più possibile le loro potenzialità tecniche e fisiche. Sono già diversi anni che l’Accademia sforna fior di giocatori, ma gli unici che abbiamo visto esordire in Nazionale maggiore sono arrivati quest’anno, o al massimo alcuni la passata stagione.
Due anni fa, il rugby professionistico italiano, è stato rivoluzionato con l’ingresso delle due franchigie nella Celtic League, ora Pro12. Questo evento ha letteralmente stravolto il rugby nostrano e, anche se molti giocatori, allenatori ed addetti vari, ne hanno subito le conseguenze negative, alla fine ha fatto bene a tutto il movimento. Negli ultimi anni, il professionismo italiano era diventato un movimento fine a se stesso, slegato dalle dinamiche federali, dove il fine ultimo era vincere il campionato per trovare sponsor e comprare altri stranieri con cui tentare di rivincere nell’immediato. Quindi, da un lato i club con la loro lega e le loro necessità a breve o brevissimo termine e dall’altro la federazione, che aveva interesse a far crescere i propri ragazzi per rimpinguare una Nazionale a corto di giovani.
La situazione è andata avanti per troppo tempo e in nazionale sono arrivati moltissimi stranieri “eleggibili”. Io non ho niente contro di loro, anzi, sono sempre stato uno di quelli che li hanno accolti e cercato di integrarli al meglio nella squadra, ma se si parla di Nazionale, non mi è mai andato giù il fatto che ci fossero tutti questi eleggibili ad indossare la maglia azzurra senza sapere l’Inno o, magari, se la Basilicata fosse una regione o un piatto di pasta al basilico.
Così l’ingresso in Celtic League delle franchigie italiane ha sancito un momento di importante cambiamento per il rugby italiano: se da un lato il livello di gioco aumentava inevitabilmente, dall’altro federazione e squadre di club hanno capito che puntare sui giovani e su un settore giovanile di livello,
è l’unico modo per garantire il giusto ricambio generazionale in prima squadra. Le fondamenta di un team di successo sono i suoi giovani.
Adesso tutte le società che vogliono crescere, svilupparsi e mantenersi solide, non vanno più in giro a cercare soldi (che tra l’altro non ci sono più) per poi sprecarli con 4-5 stranieri, che finito il contratto se ne vanno senza lasciare niente. Adesso, quei pochi soldi che ci sono, vengono spesi investendo nei settori giovanili, nelle strutture, nei tecnici ecc. Questa è stata la rivoluzione. Sarà il motivo principale per cui in Italia il rugby ricomincerà a crescere come prima dell’avvento del “professionismo dilettante”.
Adesso gli obbiettivi di Federazione e club sono, a grandi linee, coincidenti e sono focalizzati sulla crescita dei giovani. Non esistono più, tranne le franchige, squadre di giocatori totalmente professionisti. La nostra, è una attività che ha bisogno di restare ancorata alla tradizione ed alla base, più c’è interrelazione tra le varie categorie, serie A-B-C e più il movimento ne trarrà giovamento. Adesso le differenze tra le categorie non sono più così abissali come qualche anno fa, perché? Semplice, il movimento, che si era espanso verso l’alto come la bolla della finanza, sta ritrovando compattezza tornando ai vecchi valori del nostro bellissimo sport. Adesso gli obbiettivi di Federazione, serie A, B o C sono coincidenti e, se il professionismo in Italia è finito, siamo sicuri che sia davvero un male? A me non sembra! Ai posteri l’ardua sentenza…